La Stampa, 4 dicembre 2014
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L’inchiesta sui rapporti fra mafia e politica a Roma mostra il declino della destra italiana. Basta ascoltare le parole di Gianni Alemanno: «Ne uscirò pulito». All’ex sindaco sembra sfuggire che l’aspetto penale riguarda lui soltanto (e ci si augura che sia innocente); ma è un po’ più generale, e un po’ meno appellabile, la sua prestazione al governo di Roma
Il declino della destra italiana, disastroso fino all’insospettabile, risiede anche nelle parole dell’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno: «Ne uscirò pulito». Ad Alemanno sembra sfuggire che l’aspetto penale riguarda lui soltanto (e ci si augura che sia innocente); ma è un po’ più generale, e un po’ meno appellabile, la sua prestazione al governo di Roma.
Uscirne puliti è una bella speranza e niente più. In sei anni – da quando il centrodestra si prese la capitale nel 2008 – il mondo si è ribaltato; c’era Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi, Gianfranco Fini era fondatore del Pdl. Il consuntivo sarebbe inutile se la cronaca non riproponesse, sotto forma di intercettazioni e ordinanze di arresto, il folle sistema di potere messo in piedi in Campidoglio, e già raccontato mille volte per l’alzata di spalle dei protagonisti. Così folle che importa sino a un certo punto se Alemanno ne sia stato il fulcro o l’inconsapevole vittima, e nel secondo caso per l’ex sindaco sarebbe persino più umiliante. Perché l’aspetto politico – senza tirare in ballo impegnative questioni morali – è l’incredibile tracollo del semplice buon senso, e anche del minimo buon gusto.
Per quarantanove anni, dal 1945 al 1994, alla destra italiana rappresentata dal Movimento sociale fu impedito di mettere mano alle amministrazioni, esclusi per indegnità di stirpe. Quando la Seconda repubblica riconsegnò a Gianfranco Fini e ai suoi il diritto alla competizione, le aspettative erano alte. Loro vivevano nel mito delle mani pulite, che potevano esibire anche per mancanza di occasioni, e nell’entusiasmo di chi aspettava il proprio turno da sempre. Vent’anni dopo il fallimento è spettacolare, verrebbe da dire wagneriano ma è un aggettivo profondamente immeritato: il partito non c’è più, i semileader sono divisi in partitini senza consenso, Fini vive in esilio volontario, uscì da Palazzo Chigi nel 2011 senza gloria e senza passione, e la riconquista di Roma – dopo sessantacinque anni a guardare – ha per epilogo questo guazzabuglio di criminali, ex terroristi, seconde file col pallino della mascella, il tutto subito dopo la crapula di periferia della quale Franco Fiorito è diventato il simbolo. Nessun mondo – comunista, socialista, democristiano – si era inabissato in modi tanto miserabili e piccini. Per dire: un avversario dichiarato come Pietrangelo Buttafuoco, che definì Verona l’unica città romana ben amministrata, oggi si rifiuta di aggiungere sillaba: «Il ve l’avevo detto non mi si confà». E del resto si tratta di un mondo – nostalgie a parte – che alle origini aveva dentro di sé la cultura e il respiro di gente come il poeta Ardengo Soffici o come l’ambasciatore Filippo Anfuso. Col tempo è andato tutto perduto, l’ostracismo ha portato il Movimento sociale al ghetto, alla piccola guerra sotterranea fra correnti o, meglio, fra quartieri romani, ognuno col suo capetto a costituire l’ossatura di una classe dirigente nata male, completamente distaccata dalla realtà perché la loro realtà era nient’altro che la logica di sezione e la partita interna, come il caso di Alemanno dimostra spettacolarmente. Non hanno studiato le lingue, non hanno imparato a leggere come si deve, al massimo andavano a Cortina per farne una dépendance balzacchiana della Suburra. Sono arrivati al potere già ebbri, incapaci di capire che l’emersione da Colle Oppio richiedeva altra tempra. «Avevano biografie da passeggio», ci dice Marcello Veneziani, e l’espressione è formidabile. Hanno incarnato, ci dice ancora, «una politica inconsistente, infiltrata dalla criminalità perché fragile e senza rispetto di se stessa». Uscirne puliti è l’ultima velleità.