la Repubblica, 3 dicembre 2014
Cinque giocatori di football americano, del Saint Louis, sono entrati in campo con le mani alzate. «Hands up, don’t shoot». Ovvero: mani in alto, non sparate. Gesto polemico verso la decisione di non incriminare l’agente bianco, Darren Wilson che ad agosto ha ucciso Michael Brown a Ferguson
Un pugno nero sfondò il cielo nel ‘68. Mani alzate hanno fatto lo stesso nel 2014. Stessa protesta, ma gesti diversi. Contro la violenza razzista, quasi mezzo secolo dopo. Una scena da film, mai vista in uno stadio. Altro che domenica maledetta domenica. Cinque colossi del football americano, di quelli che se li incontri per strada, svolti subito l’angolo, sono entrati in campo e hanno chiesto pietà. «Hands up, don’t shoot». Ovvero: mani in alto, non sparate. Saint Louis giocava contro gli Oakland Raiders. E veramente non c’è niente da capire. Gesto polemico verso la decisione di non incriminare l’agente bianco, Darren Wilson che ad agosto ha ucciso Michael Brown, un ragazzo afroamericano di 18 anni, a Ferguson, cittadina alle porte di St. Louis, Missouri. I cinque giocatori (neri): Stedman Bailey, Tavon Austin, Jared Cook, Chris Givens e Kenny Britt hanno voluto dire: anche noi siamo disarmati, non uccideteci. Bailey ha dichiarato: «C’è troppa violenza in giro, soprattutto dalle nostre parti, va fermata». Cook ha aggiunto: «Credo debba esserci un cambiamento, e questo deve iniziare con le persone più influenti». Si sa, in America i campioni dello sport guadagnano e sono più famosi del presidente degli Stati Uniti. Il gesto ha diviso: c’è chi l’ha fischiato, c’è chi l’ha trovato offensivo, ma c’è anche chi fuori dallo stadio ha urlato: «Senza giustizia, niente football». La polizia di St. Louis si è detta profondamente amareggiata, ha chiesto alla Nfl di punirli, e le scuse della Lega e della squadra. «Gli agenti di tutto il paese hanno trovato il gesto sciatto, offensivo, provocatorio». Il coach, Jeff Fisher, ha detto di non essere stato informato: «Faccio l’allenatore, mi occupo di tattica, ma non li punirò. Mi pare esista il diritto alla libertà di parola». Da notare, tra parentesi, che anche Ben McLemore, cestista dei Sacramento Kings, nativo di St. Louis, ha giocato la partita contro i Memphis Grizzlies, con una scritta a pennarello sulle scarpe: Rip Mike Brown. Rip sta per rest in peace, riposa in pace. Anche perché McLemore, essendo tatuatissimo, non aveva più un centimetro di pelle dove scrivere la sua protesta.
A Città del Messico nel ‘68 Tommie Smith e John Carlos pagarono carissimo il loro gesto, e anche l’australiano Peter Norman che per solidarietà si mise una spilletta. Loro non fecero male a nessuno, ma l’America lo fece a loro. Cacciati fuori squadra, squalificati, perseguitati. La moglie di Carlos non resse e si suicidò. Sei mesi prima a Memphis era stato assassinato Martin Luther King. Subito dopo a Los Angeles, era toccato a Robert Kennedy. Il sogno americano listato a lutto. Quei guanti neri erano una protesta all’estero, su suolo olimpico, quasi extra-territoriale, trasmesso global dalla tv.
Ma il gesto dei cinque giocatori dei Rams è stato fatto invece in casa, da giocatori di casa, per fatti di casa. E questa è la differenza. Non solo un atto ideologico contro le ingiustizie del mondo, ma una compartecipazione glocal a quello che succede là fuori, nelle strade della tua città. Per la prima volta lo sport non si dissocia. Quanto alle punizioni esemplari, non se ne parla proprio. La Nfl non trova il comportamento scorretto: «Rispettiamo e capiamo la preoccupazione di tutti gli individui che hanno espresso il loro parere su questa tragica situazione». E la presidenza della squadra ha fatto sapere tramite il vice, Kevin Demoff: «Non intendiamo scusarci per il gesto dei giocatori. Pensiamo che si possa essere solidali con gli atleti, con i diritti del primo Emendamento, e con gli sforzi degli agenti». A questo punto Jon Belmar, capo della polizia, non potendo ottenere di più, ha detto: «Le prendo come parole di pentimento». Non lo sono, anzi rivendicano il diritto degli atleti a manifestare il proprio pensiero.
I padroni del grande sport americano hanno capito che non è più tempo di coprire crimini e misfatti, nemmeno privati. E infatti la Nfl ha squalificato a tempo indeterminato Ray Rice, running back dei Baltimore Ravens, immortalato dai filmati di un albergo mentre in ascensore tira calci e pugni alla moglie Janey. È violenza domestica, non sportiva, ma la Nfl oggi la ritiene inaccettabile (anche se sta pensando di delegare le sanzioni disciplinari a un’altra autorità). E anche se un giudice ha reintegrato Rice, sua moglie ieri è andata a difenderlo in tv, la sua ex squadra ha detto che non intende riprenderlo. Un pugno nel ‘68 spaventò l’America, dieci mani alzate in segno di resa l’hanno inchiodata alla sua violenza.