Libero, 3 dicembre 2014
Tutte le donne, le passioni e i vizi di Al Baghdadi. Un terrorista tra nuoto, calcio e fondamentalismo islamico. Per Forbes e Time è un imprenditore di successo. Ha studiato con al Qaeda per rottamarla
Una delle mogli del Califfo dello Stato islamico Abu Bakr al-Baghdadi, e sua figlia (una bambina di otto o nove anni, sottoposta al test del dna per verificare l’effettiva parentela) sono state arrestate dall’esercito libanese nove giorni fa. Venivano dalla Siria e sono state arrestate appena passato il confine. Ora sono detenute e, si suppone, potrebbero rivelarsi una utilissima fonte di informazioni sul capo dell’Is, che vive nascosto per evitare che i raid della coalizione guidata dagli Stati Uniti lo facciano saltare con un missile, come accaduto al suo maestro qaedista al-Zarqawi. Per ora i miliziani di nero vestiti non hanno reagito, ma immaginiamo che il Califfo non la prenderà bene. Nelle scorse settimane era circolata la voce che al-Baghdadi fosse defunto, ma il governo iracheno ha presto smentito la notizia e in breve tempo un messaggio registrato con la sua voce ha fatto sapere al mondo che egli è vivo e vegeto. E non ha intenzione di cessare la sua guerra.
La cattura della moglie è importante perché potrebbe finalmente rivelare qualcosa in più su quest’uomo avvolto nell’oscurità, e non soltanto perché abbigliato sempre in nero. Il manager del terrore che guida la «Is Corporation» è sicuramente l’uomo di maggior successo degli ultimi anni, almeno nel suo non ammirevole settore. Fino a questa estate, l’Occidente tutto (esclusi gli analisti) non sapeva nemmeno chi fosse. Ma gli sono bastati pochi mesi per farsi conoscere da chiunque: ha fatto la carriera che ogni manager sogna. L’unica sua foto disponibile – segnaletica, in bianco e nero – è finita sulla copertina di Time, che lo ha incoronato «uomo più pericoloso del mondo». Forbes lo ha inserito nella lista degli uomini più potenti del globo, al 54esimo posto, celebrandone l’ascesa. Le Nazioni Unite lo hanno sanzionato con la forma di embargo appositamente creata per al-Qaeda, il governo americano ha messo una taglia di dieci milioni di dollari sulla sua testa. Mica male, per un ex illustre sconosciuto. Il mondo ha fatto la sua conoscenza ai primi di luglio. Il 29 giugno abbiamo appreso dal suo ufficio stampa Mohammed al-Adnani – tramite un audio diffuso su internet – che il nostro si era proclamato califfo, assumendo il nome di Ibrahim. Ma prima?
Abu Bakr al-Baghdadi, anche conosciuto come Abu Du’a, è nato a Samarra, a Nord dell’Iraq, nel 1971 e di nome fa Awwad Ibrahim Ali al-Badri al-Samarra. Quando stava nella sua città sunnita, da ragazzino, pare gli piacesse molto giocare a pallone. Abu Ali, suo amico d’infanzia, ha raccontato al Telegraph: «Era il Messi della nostra squadra, il nostro miglior giocatore». Negli anni a venire, sostituirà la passione per i colpi di testa con quella per le teste mozzate. A 18 anni, il giovanotto si trasferisce a Tobchi, un sobborgo di Baghdad, per studiare. Frequenta l’università islamica, si impegna. Si dice che abbia anche ottenuto un dottorato. Fino al 2004 vive come uno studente, in una stanza attaccata alla locale moschea. I suoi amici lo descrivono come un’uomo «tranquillo, educato».
UNO TRANQUILLO
A differenza di quel che si è scritto, Abu Bakr non è mai stato un predicatore. Si limitava a sostituire per la preghiera l’imam di Tobchi quand’era assente. «Aveva una bella voce, giusta per la preghiera», racconta Abu Ali. Sotto il regime di Saddam, continuava a giocare a calcio. I suoi svaghi consistevano nell’organizzare picnic con gli amici fuori Baghdad, nel distretto di Anbar. Oppure andava a nuotare. Piccoletto, barbuto ma non tanto come adesso, era un salafita conservatore. Pare che una volta, passando per la strada, si adirò terribilmente nel vedere uomini e donne che danzavano assieme a un matrimonio e fece il diavolo a quattro: «Come possono uomini e donne ballare insieme così? È blasfemo!». Ma niente di più. Era un giovane bacchettone, non un terrorista. Finiti gli studi si era sposato, era diventato padre.
Ma ecco il trauma che gli fece cambiare vita. Durante l’occupazione americana, l’imam della sua moschea gli propose di entrare nel Partito Islamico che aveva intenzione di creare. Abu Bakr rifiutò – anche perché per i salafiti i partiti politici sono sacrileghi – e l’imam lo cacciò di casa e dal quartiere. E qui cominciano i guai. Di quel che successe si sa poco, se non che nel 2004 fu arrestato per attività antiamericane e rinchiuso nel carcere di Camp Bucca. Il Dipartimento della Difesa americano dice che fu liberato pochi mesi dopo, altri sostengono che uscì solo nel 2009. Probabilmente la prima versione è la più credibile. Fatto sta che in carcere Abu Bakr si radicalizza. Cementa i suoi rapporti con l’ala irachena di al-Qaeda. Quella di al-Zarkawi, quella dei tagliatori di teste. Fuori dal carcere combatte nelle file dell’allora Isil. Poi, appreso il mestiere, decide di mettersi in proprio. Nel 2010, dopo la morte del leader dell’epoca Abu Omar, rileva il marchio e fonda il nuovo Stato islamico. I soliti fissati (tipo Gioele Magaldi in un libro appena uscito per Chiarelettere) sostengono che sia un affiliato di una potente loggia massonica. Altri dicono che sia al soldo della Cia e del Mossad.
L’ASCESA
Intanto però l’Isis cresce. E, nel 2013, si scontra con al-Qaeda: al-Zawahiri in persona gli proibisce di espandersi in Siria, ma Abu Bakr se ne frega. E ha ragione lui: a breve diverrà il fondatore del nuovo califfato. Fino a un anno fa, tanti lo irridevano. Quando nel 2013 chiamò a raccolta i simpatizzanti qaedisti di tutto il Medio Oriente, quelli lo mandarono al diavolo. Ora lo adorano. Lo scorso gennaio, Barack Obama si fece beffe dell’Isis, dicendo al New Yorker: «Isis è come la squadra di basket delle riserve di un college, mettersi la maglia dei Lakers non li trasforma in Kobe Bryant». Ora Abu Bakr è il nuovo Bin Laden e in più ha uno Stato: è più di Bryant, è Michael Jordan. O il Messi del terrore, come volete. E c’è poco da ridere.