Il Messaggero, 3 dicembre 2014
L’ultima sigaretta di Umberto Veronesi. Nel suo saggio autobiografico “Il mestiere di uomo” l’oncologo parla dell’abitudine alla nicotina. I ricordi spaziano dagli anni ’40, quando accese la sua prima Nazionale senza filtro, agli anni ’70 quando scoprì che le bionde davano la stessa dipendenza delle droghe come l’eroina. «Smettere di fumare è un grande atto di libertà»
Anche Umberto Veronesi ha fumato sigarette. Ha tenuto un pacchetto in tasca e ha toccato con mano la dipendenza da tabacco. L’oncologo parla da oltre trent’anni degli effetti delle bionde sul nostro organismo, a cominciare dai polmoni, ma raramente ha raccontato in prima persona l’abitudine al fumo. Ha deciso di farlo nel suo ultimo libro “Il mestiere di uomo” (Einaudi editore) dedicando un capitolo intero a questa esperienza. Che il professore collega direttamente alla condizione di dipendente. Un’associazione strettissima, a suo avviso, con la droga. Nel libro approfondisce il suo pensiero sul fine vita, sulla maledizione della guerra, sul suo incontrare uomini e donne deboli sfiniti dalla malattia. Torna il suo essere medico, il suo ascoltare, il suo percorso per riuscire a vivere nonostante le sconfitte, le morti, le lotte.
Per Veronesi smettere di fumare è un gesto di libertà. Così, in questo manuale-confessione, regala una lettura diversa al superamento della dipendenza. Il racconto inizia da quando, negli anni Settanta, ha conosciuto da vicino il mondo della droga. «La mia casa è sempre stata aperta agli amici dei miei figli – ricorda – e lo è ancora oggi. La domenica quando ci riuniamo siamo più di trenta. Con sette figli molto socievoli e animati da un forte senso di solidarietà, posso dire che da casa nostra è passata mezza Milano. Ebbene, allora, negli anni Settanta ho dovuto chiedere ai ragazzi di far sparire tutto e di chiudere i cassetti a chiave perché qualcuno dei loro amici si era messo a rubare. Erano gli anni dell’eroina. Non volevo mandarli via ma dovevamo proteggerci».
IL DESIDERIO
Dice il professore che voleva capire perché quei ragazzi rubavano e si facevano. Poi il ricordo delle prime sigarette. «Non so esattamente quando ho acceso la prima bionda – confessa – probabilmente una Nazionale senza filtro ma sono certo di aver provato piacere. Nell’Italia povera degli anni Quaranta la sigaretta era segno di benessere, un piccolo premio. Un modo per sopportare meglio guerra, freddo e fame». Veronesi alterna “l’io” con l’analisi di quello che accadeva accanto a lui quando, poco più che ventenne, non si poneva certo il problema della salute. Né, tantomeno quello di smettere.
Ha continuato a fumare anche da adulto «nelle lunghe sere passate a giocare passate a giocare a bridge con mia moglie e gli amici». «Ho realizzato sulla mia pelle – aggiunge – che fumare non è affatto la risposta a un desiderio naturale, come lo è quello del buon cibo, del buon vino, di una bella donna o di un uomo affascinante. Ma è un bisogno artificiale, indotto dall’esterno, che può sparire esattamente come è stato creato: con il pensiero». Nasce così la convinzione dell’oncologo che smettere con le sigarette più che un atto di volontà sia un gesto di libertà. È riuscito a gettare il pacchetto. Una forma di rivolta, come scrive, verso lo sfruttamento economico della dipendenza da parte delle multinazionali del tabacco «che in Italia hanno come alleato lo Stato». «Ho tentato di dare il mio piccolo contributo privato abbandonando la sigaretta della gioventù, e tutt’oggi continuo a non fumare».
LA RIVOLTA
Boccia le minacce Veronesi e insiste nel dire che chi è dipendente dal tabacco va convinto a smettere, va persuaso. Dal momento che il problema è tutto nella psiche. E che lei, solo lei, può organizzare la rivolta. Personale e pubblica. Per salvare la propria salute e per sottrarre il proprio denaro alle mafie. «Il fumo – spiega il professore che si dilunga anche sulla schiavitù sigaretta più alcol – è una delle più pericolose forme di tossicodipendenza, anzi dal punto di vista della salute, la più pericolosa, ma soprattutto è la più difficile da combattere perché la società non la condanna, come fa per le altre droghe. Anzi, nonostante la legge, subdolamente la promuove». Punta il dito contro un fatto che ai più è sfuggito: nel 2009, dopo essere stato a lungo bandito, il fumo è tornato, inaspettatamente, nelle scene dei film. E cita “Avatar”, il kolossal della realtà virtuale dove si accendono sigarette.