La Stampa, 3 dicembre 2014
L’Italia consuma sempre meno gas. E se Putin dice addio a South Stream noi non ci preoccupiamo. Lo dice prima Renzi e poi l’Eni che è partner al 20 per cento della società (a guida Gazprom) che avrebbe dovuto costruire il gasdotto
Nel futuro prossimo la scomparsa di South Stream dalle carte geografiche non avrà effetti sensibili sulle forniture e sui prezzi del gas in Italia e in generale nell’Unione europea. L’opinione prevalente in ambienti tecnico-governativi, sostenuta anche dai ragionamenti che si fanno in casa Eni, è che con un livello della domanda assai sotto i livelli che si ipotizzavano solo qualche anno fa e una gran quantità di rigassificatori che in Europa girano a capacità ridottissima c’è spazio in abbondanza per far fronte a ulteriori incrementi della domanda di gas; anche senza il gasdotto che avrebbe dovuto collegare Mosca con l’Europa dribblando l’Ucraina e che Vladimir Putin ha appena sepolto.
Ecco così le parole del presidente del Consiglio Matteo Renzi ieri ad Algeri: «Il progetto South Stream era fortemente contestato e condizionato dalla procedura di infrazione Ue, un progetto che noi non consideriamo fondamentale per l’Italia, quindi la decisione di bloccarlo non è un elemento di preoccupazione».
Ma non tutti, nel governo e tra gli osservatori condividono questa visione. Sempre ieri il viceministro allo Sviluppo economico Claudio De Vincenti, strenuo difensore del progetto, ha detto che «è presto per dire che le parole di Putin facciano venire meno il processo negoziale su South Stream». E un tecnico come Alberto Clò mette in guardia dai rischi che potrebbero presentare soluzioni alternative a South Stream: «Il crollo dei prezzi del petrolio cambia drasticamente i programmi di investimento in infrastrutture. Gli investimenti in corso si realizzeranno, ma difficilmente se ne faranno di nuovi».
Proprio in Italia, comunque, il picco di consumo di gas di 86,2 miliardi di metri cubi – registrato nel 2006 – si è ridotto nel 2013 a 70 miliardi e quest’anno scenderà ancora. Due i motivi principali: il calo della congiuntura economica e l’aumento delle fonti rinnovabili. Assieme ai consumi scende però anche la produzione nazionale, passata dai 13 miliardi di metri cubi di un decennio fa a poco più di 7 miliardi. Di fronte a questo quadro c’è sia la possibilità di usare vie alternative, in particolare il gasdotto Tap in costruzione – che dall’Azerbaigian dovrebbe arrivare in Italia attraverso Turchia, Albania e Grecia – sia quella di sfruttare la rete europea di rigassificatori: oggi, secondo i dati dell’associazione degli operatori del gas europei, i 22 terminali già costruiti hanno una capacità di trasformare 190 miliardi di metri cubi l’anno, ma vengono usati solo al 20%.
All’Eni, che è partner al 20% di South Stream Transport, ossia la società a maggioranza Gazprom che avrebbe dovuto costruire e gestire al tratta sottomarina del gasdotto nel Mar Nero, il vento è cambiato radicalmente quando all’amministratore delegato Paolo Scaroni è subentrato lo scorso maggio Claudio Descalzi. La posizione del nuovo ad, espressa anche in Parlamento, è stata molto fredda sul gasdotto con la Russia. Dopo aver rinegoziato i contratti «take or pay» con Mosca, assicurandosi così prezzi e approvvigionamenti prefissati per i prossimi vent’anni Descalzi ha anche avviato una politica che punta ad aumentare il ruolo delle forniture da Paesi africani come l’Egitto, l’Algeria e la Libia (le ultime due già collegate all’Italia da gasdotti), anche se al momento i rischi politici in quelle aree sono alti. E al posto dei gasdotti a San Donato Milanese guardano con molto interesse proprio al vasto e sottoutilizzato sistema di rigassificatori europei, che con una rete di interconnessione potrebbe facilitare l’accesso dell’Italia ad esempio ai terminali spagnoli. Ma anche qui fa da controcanto l’opinione di Clò: «Manca un’infrastruttura per collegare i rigassificatori spagnoli con altri paesi. Chi la costruirà?».