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 2014  dicembre 03 Mercoledì calendario

L’Europa non ha una strategia comune sull’energia, ma la caduta del prezzo del petrolio potrebbe essere una grande opportunità di rilancio per l’Italia. L’errore è stato di aver abbandonato la Libia. La centrale a carbone torna d’attualità

Se c’è una distrazione che l’Italia non può permettersi, è quella energetica. Il petrolio in caduta del 40% dallo scorso giugno, attualmente verso i 65 dollari nella variante Wti americana e verso quota 70 in quella Brent nordeuropea. È un sisma di prima grandezza che altera equilibri geostrategici e finanziari. Sono tre i poli che si affrontano sullo scenario mondiale, con interessi divergenti o solo in parte collimanti. Poi c’è l’Europa che è un non-polo, incapace da decenni di una politica energetica comune nei suoi confini, e tanto più sui mercati e nei fori internazionali. E nell’Europa dei deboli l’Italia è vaso di coccio, per le scelte che ha fatto. Sarà dunque il caso che si svegli. Può farlo benissimo, è alla sua portata: ma servono decisioni che richiedono determinazione politica e l’assunzione inevitabile di rischi.
TRE POLI IN LIZZA
Se guardiamo ai tre poli in lizza, nell’Opec essenzialmente l’Arabia Saudita asseconda la scommessa al ribasso per tre obiettivi. Uno sgambetto all’Iran – per sostenere il cui bilancio serve un barile a 100 dollari – contrastando le sue pretese di egemonia sciita nel medio oriente. Un altro a Mosca, che realizza oltre metà del suo bilancio pubblico dall’energia ed è già in pesante recessione per le sanzioni relative alla vicenda Ucraina, ma che paga caro il sostegno ad Assad in Siria. Il terzo è agli Stati Uniti: sotto i 70 dollari al barile inizia a scemare anche la convenienza dello shale gas e dello shale oil, la rivoluzione fossile da frantumazione idraulica delle scisti su cui marcia a pieno regime il traguardo dell’indipendenza energetica americana, la vera motrice della ripresa Usa, molto più della Federal Reserve.
La Russia è entrata in pochi mesi in difficoltà serissime: il calo vorticoso del rublo per compensare il venir meno di export energetico e il deflusso di capitali non può durare a questi ritmi, vincoli sui capitali per impedirne l’uscita e il possibile salvataggio di gruppi finanziari sono già dietro l’angolo. Per gli Stati Uniti, il problema è soprattutto finanziario: metà dei 650 miliardi di dollari di esposizione a rischio delle grandi banche occidentali su oil e gas a prezzi ben superiori agli attuali sta in pancia a colossi finanziari americani.
OGNUNO PER SÈ
L’Europa depressa dovrebbe avvantaggiarsi del ribasso energetico (eccezione fatta per i produttori, UK e Norvegia). Non è così. Non ha una propria strategia, né di approvvigionamento né di bilanciamento geopolitico tra i tre poli. Ogni paese Ue ha perseguito proprie linee nazionali. La Francia con il nucleare se la ride. La Germania ha pipeline dirette con la Russia e tenta di tutelare i paesi est europei in cui ha pesantemente delocalizzato.
Quanto all’Italia, nel 2013 il 35% dei suoi consumi energetici sono venuti dal petrolio, e il 34% da gas, il 18% da rinnovabili. Mentre Germania e Polonia utilizzano il carbone per oltre il 40% del fabbisogno elettrico, noi siamo sotto il 15%. Siamo enormemente dipendenti da paesi a rischio. Da Azerbaigian e Russia nel 2013 abbiamo importato oltre 10 milioni di tonnellate di petrolio ciascuna e 8,2 dalla Libia. Dalla Russia 30,3 miliardi di metri cubi di gas e dall’Algeria 12,4 cioè sommandole il 60% del nostro fabbisogno, il resto viene da Libia, Mare del Nord e solo l’8% è gas liquefatto, visto che sui rigassificatori si è abbattuto il veto ambientalista.
La Russia è costretta a decisioni toste, come far saltare il South Stream che attraversava il Mar Nero aggirando l’Ucraina doveva raggiungere Balcani e Italia. Mosca non si può più permettere tubi per un gas a paesi che la sanzionano e che, soprattutto l’Italia, sono da anni in contrazione dei consumi elettrici. Per Putin continuare a rifornire Centro e Sud Europa passando per il nodo ucraino significa mantenere un pugno di ferro sul ricatto politico-militare. Per Eni e Saipem direttamente coinvolte nella partita South Stream, bisogna sperare che le clausole di salvaguardia finanziaria per diversi miliardi siano state ben contrattate, e che vengano puntualmente onorate.
Veniamo alle conseguenze. Nessuno può immaginare che la risposta possa venirci dall’Europa, che al più serve a un piano di emergenza negli stoccaggi solidali se la Russia chiudesse improvvisamente il rubinetto. L’Italia se la deve sbrigare da sola. Deve perseguire apertamente i propri interessi nazionali, come hanno sempre fatto gli altri europei e come ieri ha giustamente detto al Messaggero il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni.
RIPARTE VADO LIGURE
Farlo, significa mettere in conto alcune scelte pesanti. Alcuni esempi. Col petrolio in caduta, un impulso alla ripresa italiana viene più da un drastico taglio del 60% di accise e Iva che gravano sulla benzina alla pompa, che dal bonus 80 euro. In Algeria Renzi è stato ieri, e bisogna tenersela stretta. Ma sulla Libia significa cambiare musica, in politica estera e militare. Obama chiese all’Italia da Monti in avanti, di diventare capofila in Libia. Noi stiamo chiudendo l’ambasciata. Al contrario dobbiamo investire intelligence, mandare militari, rischiare uomini e mezzi. Lo avessimo fatto tre anni fa, la Libia non sarebbe al collasso di bande infiltrate di jihadismo in cui versa oggi. Continuare a fingere che la cosa non ci riguarda è da ciechi. Significa inoltre assumere decisioni sul carbone: la parola definitiva del ministero dell’Ambiente per la riapertura della centrale di Vado Ligure, una delle 12 residue in Italia, è attesa per domani 4 dicembre. Significa spingere l’Eni sempre più verso l’Africa e sempre meno verso il Centro Asia ex sovietico. Significa un governo che nel suo cronoprogramma assuma obiettivi di abbattimento della bolletta energetica, e della dipendenza a rischio. Altrimenti, sprecheremo anche la manna di un tanto cospicuo abbassamento dei prezzi.