Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  dicembre 03 Mercoledì calendario

Perché lo shale oil americano può reggere anche a 50 dollari al barile. Troppi errori di valutazione hanno impedito di capire la capacità della rivoluzione statunitense di gas e petrolio shale di resistere a prezzi molto più bassi delle rispettive materie prime

Troppi errori di valutazione hanno impedito di capire la capacità della rivoluzione statunitense di gas e petrolio shale di resistere a prezzi molto più bassi delle rispettive materie prime. Eppure molti, a partire dai paesi dell’Opec o dalla Russia, continuano a sperare che la caduta dei prezzi possa fermare il boom del greggio statunitense, riequilibrando al rialzo i prezzi stessi. Ma questa attesa si basa su numeri sbagliati.
Fino a un anno fa, l’Opec credeva che la produzione petrolifera americana fosse insostenibile con un prezzo del greggio inferiore a 90 dollari a barile; agli inizi di quest’anno aveva rivisto la stima, portandola a 75 dollari. Ma anche questo numero, come quelli forniti da altre prestigiose istituzioni, è destinato a essere smentito dai fatti.
La produttività e i costi dello shale oil (e dello shale gas) variano in modo enorme all’interno di uno stesso giacimento, determinando profonde differenze nei break-even (cioè nel punto di pareggio tra prezzi e costi) delle sue diverse aree produttive. Conoscere queste differenze è necessario per valutare quale parte della produzione di un giacimento shale potrebbe rivelarsi non-economica se i prezzi del greggio scendessero sotto certi livelli. Per fare un esempio, la contea McKenzie è l’area più produttiva del giacimento di Bakken-Three Forks nello stato del Nord Dakota. Ad Agosto, a Mckenzie si producevano 350mila barili al giorno di greggio, oltre un terzo della produzione complessiva di Bakken (1.132.000 barili al giorno). Il break-even di McKenzie, calcolato assumendo un tasso di rendimento interno pari al 10%, è di 28 dollari a barile. Al contrario, la contea di Divide (sempre nella formazione Bakken) nello stesso mese ha prodotto poco più di 35mila barili al giorno, con un break-even di 85 dollari.
Questi due estremi di uno stesso giacimento danno un’idea di quanto sia complessa e scivolosa la valutazione dei fondamentali economici dello shale oil (lo stesso vale per lo shale gas) in mancanza di dati ampi e puntuali raccolti sul campo. L’80 per cento del petrolio di Bakken ha un break-even di 42 dollari a barile, mentre solo il 7% non sarebbe economica con un prezzo del greggio sotto ai 70 dollari. Formalmente è corretto dire che la produzione marginale del giacimento ha un costo di 85 dollari a barile, ma è del tutto fuorviante tacere il fatto che quel valore si riferisce a meno del 3% della produzione complessiva. Valori analoghi si registrano negli altri due grandi bacini statunitensi di shale oil, Eagle Ford e Permian Basin, entrambi in Texas, nei quali solo il 10% della produzione ha bisogno di prezzi del greggio superiori ai 60 dollari. Generalmente, le produzioni meno redditizie sono in mano a una miriade di piccole e piccolissime società petrolifere molto indebitate, e quindi a rischio di sopravvivenza.
Se il prezzo del greggio dovesse cadere ancora, è probabile che molte di esse siano acquistate da operatori più grandi e con spalle finanziarie più solide. In ogni caso, la produzione statunitense non subirebbe scossoni fino a prezzi del greggio inferiori a 50 dollari a barile. In sostanza, una miglior conoscenza dei segreti dello shale e i progressi della tecnologia hanno permesso ai produttori più capaci di prosperare, malgrado la diminuzione dei prezzi. Da giugno, cioè dall’avvio della caduta dei prezzi, la produzione americana è cresciuta di altri 400mila barili al giorno. La crescita potrà subire una sosta nei mesi più duri dell’inverno, a causa delle condizioni ambientali, ma poi è probabile che la produzione continui ad aumentare.
Peraltro, le compagnie stanno già imponendo alle società di servizi (quelle che realizzano la fratturazione idraulica, o fracking, e altri servizi indispensabili per la produzione shale) tariffe più basse, e i primi segnali indicano che i fornitori si stanno allineando. Al tempo stesso, la forte intensità di perforazione (il numero di pozzi per una data area) e tecniche come il “pad drilling” (che permette di perforare più pozzi da un’unica piattaforma in superficie) stanno più che bilanciando il fortissimo declino del singolo pozzo: in sostanza, la produzione aumenta perché si perforano sempre più pozzi nella stessa area. Da tempo ritengo che questo elemento costituisca il fattore più critico delle produzioni shale e il vero limite alla loro espansione negli Stati Uniti e nel resto del mondo. In particolare, in aree densamente popolate, così come in quelle ad alta sismicità, l’intensità di perforazione richiesta esalta i problemi di aggressione al territorio, danno ambientale e eventuale rischio sismico – problemi che rappresentano la faccia oscura dello shale. Ma questa è un’altra storia, che merita un’analisi a parte.