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 2014  dicembre 03 Mercoledì calendario

Clint Eastwood racconta le memorie del cecchino Chris Kyle, il tiratore scelto che ammazzò 160 iracheni, il massimo numero di morti attribuiti a un uomo solo in guerra. Ne uscì matto. Rimpatriato, morì ucciso da un ex Marine mentre facevano tiro al bersaglio in Texas

Mi aspettavo il lamento di un’armonica, quando i proiettili del «bello» cominciano a mietere i «cattivi» nella polvere irachena, ma dallo schermo escono soltanto i silenzi e i tonfi della morte che il supercecchino raccontato da Clint Eastwood sa distribuire come nessun altro. American sniper, l’ultimo suo prodotto ricavato dalle memorie del tiratore scelto Chris Kyle, accreditato ufficialmente di almeno 160 bersagli umani abbattuti in Iraq, il massimo numero di morti attribuiti a un uomo solo in guerra, è un’altra, ma certamente non ultima, stazione nel calvario della rivisitazione di quella insensata avventura chiamata Iraq.
Quanto sia ancora difficile, e ancora lunga la salita che l’America deve compiere, è proprio questo lungo, e incerto film che tenta di tenere insieme la clinica disumanità del cecchino con il dramma della moglie e dei figli lontani ad attenderlo per mille giorni, in Texas. Steven Spielberg, che aveva accettato di dirigerlo lo scorso anno, si è ritirato. Eastwood ha raccolto la sceneggiatura e l’ha portata fino in fondo. E se produrlo è stato difficile, guardarlo ora nei suoi 134 minuti non è più facile: è come seguire un labirinto di sentimenti opposti dal quale ancora – undici anni dopo l’invasione ordinata da Bush – l’America non ha trovato l’uscita. E neppure Eastwood, che nei piani diversi del racconto, fra il mattatoio di Falluja (girato in Marocco) e la fatica della normalità perduta attorno ai barbecue, sembra perdersi, come il cecchino che non riesce mai davvero a ricomporre le sue vite parallele.
Nell’autobiografia del ragazzo texano al quale il padre insegnò a 8 anni ab abbattere i cervi e al quale, vent’anni più tardi Zio Sam insegnò a centrare iracheni con la carabina a telescopio non è la violenza a opprimere, non sono i bambini usati come armi e abbattuti come soldati, a disturbare. È l’ambiguità morale di una guerra che ha devastato un nazionale lontana, che ha ucciso decine di migliaia di americani e iracheni, che ha inferto un altro colpo violentissimo all’autostima e all’immagine internazionale di una nazione che fatica sempre più a considerarsi come «il buono» del film, unico fra brutti e cattivi.
Come non esiste piano di battaglia che sopravviva al primo contatto con il nemico, avvertiva il Maresciallo Von Moltke, così ogni pretesa assoluta di superiorità morale diventa rapidamente relativa al momento di scambiarsi i proiettili. E l’interesse di questo film, firmato da un sicuro patriota, da un americano di sangue vero come Clint non sospettabile, come Spielberg, di simpatie democratiche, è nel vedere come lentamente, ma inevitabilmente, l’arroganza e la sicumera dell’America 2013, quando anche gli intellettuali di sinistra si scoprivano «falchi», divengano il terrore di non avere prodotto altro che generazioni di implacabili nemici oltre mare. E migliaia e migliaia di reduci mutilati nelle membra e nello spirito.
Hollywood si sta avvicinando, con fatica, ai Kubrick, ai Coppola, agli Stone, ai Cimino dei grandi film che spalancarono l’armadio dell’assurdo entro il quale era nascosto il Vietnam, ma non ci siamo ancora. Bradley Cooper, l’attore votato «più sexy d’America» e qui nella tuta mimetica del Seal, del commando scelto al quale appartiene, tenta di spiegare a sé e a noi che lo guardiamo (il film sarà in sala il 1° gennaio) che Chris Kyle, il più formidabile assassino autorizzato nella storia della nazione, lo faceva per salvare la vita ai compagni. Che nel suo mirino telescopico dai tetti, come nello sguardo di un angelo vendicatore, si vedevano benissimo dove stessero i belli, i buoni, i cattivi, ma si capisce che non ci crede lui, non ci crede Clint, e non ci crede chi, come me, lo ha visto in anteprima ieri a New York. Il gioco, che per questi ragazzi risucchiati dall’orrore e dal sacrosanto desiderio di fare qualcosa, di rispondere all’oscenità commessa contro il loro Paese nel settembre del 2001, era sembrato la prosecuzione delle partite di caccia con i genitori, un poco come nel Cacciatore di Michael Cimino. Un modo per trovare un senso profondo alla propria vita e al desiderio di servire e proteggere la casa, la nazione, la bandiera. Per finire poi a invocare il ritorno, a gridare, come il fratello del Cecchino, dive- Marine anche lui, «voglio lasciare questa merda di posto».
E invece non si torna da 160 «kill» ufficiali e centinaia in più nella realtà, semplicemente spegnendo un televisore e accendendone un altro, cambiando canale e dimenticando il tuo primo centro, un bambino di 10 anni, abbattuto in una strada di Falluja. La storia dell’“American sniper” e dei due milioni e mezzo di uomini e donne americani passati nel trita anime di questa guerra senza vittoria e senza fine è perciò la storia di una sconfitta, che nessuna catasta di «selvaggi», come i Marines chiamano gli insorti iracheni può trasformare. La sconfitta morale, quell’essere trascinati nello stesso pozzo dal quale si vorrebbero strappare gli altri, è dentro, non sul campo. Non sono la libertà, la democrazia, la Costituzione gli obiettivi che un commilitone del supercecchino vuole riportare a casa, ma un bel brillante di valore comperato a poco prezzo da una famiglia di iracheni in fuga, che userà per chiedere alla ragazza di sposarlo, senza riuscirci. Neppure ci possono essere musiche di Morricone o dei Doors o degli Stones ad accompagnare questo viaggio, perché la morte che il cecchino, l’ispettore Callaghan del deserto, porta è una morta silenziosa, dove lo schiocco del colpo arriva dopo il proiettile che viaggia al doppio della velocità del suono. Si spara, si muore, ci si affloscia senza contorsioni teatrali e tutti possono essere oggi cervi e domani cacciatori. Come Chris Kyle, il killer infallibile, ucciso da un ex Marine come lui, uscito matto, mentre facevano tiro al bersaglio in Texas al sicuro di quella patria che loro avevano saputo difendere da tutti, meno che da se stessa.