3 dicembre 2014
Tags : Mafia Capitale
«Io sono il re di Roma». Ecco chi è Massimo Carminati, il capo della Mafia Capitale: dalla banda della Magliana al Mondo di mezzo, passando per l’omicidio Pecorelli e il terrorismo nero
La Stampa
Bisogna pur farsi una cultura. E allora scorriamo insieme la fitta biografia del cinquantaseienne Massimo Carminati, alias Il Nero di «Romanzo Criminale», figura di punta della retata di malviventi che hanno regnato su Roma negli ultimi anni, grazie al silenzio tremebondo e in certi casi al sostegno convinto della classe politica locale.
Picchiatore neofascista ai tempi della scuola. Terrorista nei Nuclei Armati Rivoluzionari (Nar). Esperto nello spaccio e nell’uso di esplosivi. Accusato dell’omicidio di due giovani militanti della sinistra milanese, Fausto e Iaio. Protagonista di una famosa rapina alla Chase Manhattan Bank dell’Eur. Killer affiliato alla banda della Magliana, tanto che il suo nome ricorre in decine di stragi, assassini e rapine, nonché in due omicidi avvenuti nel mondo delle scommesse dei cavalli (una delle vittime cementificata, l’altra stesa direttamente in sala corse). Accusato per il delitto Pecorelli e per un tentativo di depistaggio relativo alla strage di Bologna. Ferito gravemente alla testa durante uno scontro con la polizia, mentre tentava di espatriare illegalmente in Svizzera. Custode di un deposito di armi nascosto nientemeno che dentro il ministero della Sanità. Dedito nel tempo libero a traffico di stupefacenti, estorsioni e riciclaggio. Imputato, e condannato, per associazione a delinquere di stampo mafioso. Indagato per un furto nel caveau del Palazzo di Giustizia di Roma. Coinvolto nello scandalo del calcio scommesse. Il 2 dicembre 2014 viene arrestato...
Ma perché, fino a ieri dov’era?
Corriere della Sera
Quando lo arrestarono la prima volta mentre tentava di attraversare il confine tra Italia e Svizzera, nel 1981, dopo che un poliziotto gli sparò un colpo di pistola che gli fece perdere un occhio, faticarono a identificarlo. Perché aveva addosso un documento falso, e perché il suo vero nome era uno dei tanti estremisti di destra ricercati, niente più. Oggi, trentatré anni e qualche vita dopo, quello stesso nome è sufficiente a fare paura come l’identità di un boss, utile a incutere timore e rispetto insieme. Al pari dei soprannomi derivati dalla pallottola conficcata nell’occhio: «Il Cecato» o «Il Pirata».
È quel che sostengono gli inquirenti a proposito di Massimo Carminati, 56 anni compiuti a maggio, l’ex militante dei Nuclei armati rivoluzionari poi transitato armi e bagagli dalle parti della banda della Magliana, rimanendo coinvolto – e riuscendo a uscirne pulito, il più delle volte, o con pochi danni – nelle vicende criminali più clamorose: dall’omicidio del giornalista Mino Pecorelli (assolto in tutti i gradi di giudizio) al furto consumato nel caveau del tribunale di Roma nel 1999 (condanna ridotta a quattro anni), passando per altre vicende più o meno misteriose.
Un altro ex sovversivo «nero» degli anni Settanta arrestato nell’operazione di ieri (ce ne sono diversi, anche se ormai l’ideologia e la politica c’entrano poco e niente; sembra più una questione di soldi, e di metodi per accaparrarne) racconta in un colloquio intercettato che quando lo arrestarono per una rapina nel 1994, nella quale era rimasto ferito, appena arrivato a Regina Coeli tutti gli offrirono assistenza e solidarietà in virtù della sua amicizia con Carminati; «anche persone che, non conoscendo, però sapevano».
Perfino l’averla quasi sempre scampata nei tribunali, o comunque essersela cavata con pene leggere, secondo gli inquirenti contribuisce ad accrescere il mito dell’impunità e quindi del potere sotterraneo che riesce a esercitare. Il resto l’hanno fatto alcuni articoli di rotocalco dove veniva definito (insieme ad altri) il «Re di Roma», e lui stesso commentava: «Sul nostro lavoro... sono pure cose buone... Se sentono tranquilli», riferito alle persone con cui aveva rapporti. Oppure, quando c’era da sfruttare l’aura di duro con chi doveva adeguarsi alle sue indicazioni: «Sennò viene qua il Re di Roma... tu sei un sottoposto... è il Re di Roma che viene qua... entro dalla porta principale... vede io che gli combino».
Sia quando militava nelle file della destra sovversiva, sia nei rapporti con i banditi della Magliana (in particolare Franco Giuseppucci, boss con simpatie neofasciste), Carminati si è mostrato attento a mantenere un ruolo autonomo, amico che non tradisce gli amici e fa valere più il vincolo personale che quello politico o di «batteria».
Pronto a usare metodi maneschi e «convincenti», abituato a parlare poco e apprezzare chi parla poco, rispetto a quelli che vantano rapporti altolocati. Consapevole del proprio ruolo e della propria capacità intimidatoria ma anche imprenditoriale, attento agli affari e a nuove forme d’investimento attraverso persone fidate. Come Salvatore Buzzi, l’imprenditore delle cooperative che – nella ricostruzione dell’accusa – gli gestiva buona parte dei soldi ed è divenuto il suo principale socio occulto.
«È uno di quelli cattivi —, dice a proposito di Carminati uno degli imprenditori collusi con la presunta associazione mafiosa —. Questi c’hanno i soldi pe’ fà una guerra, ai tempi d’oro hanno fatto quello che hanno fatto... Quando te serve una cosa vai da lui, non è lui che viene da te». E chi poteva godere della sua protezione si sentiva come un altro imprenditore legato al gruppo di Carminati: «Non me può toccare manco Gesù Cristo... cioè qui... io qui a Roma sono diventato intoccabile».
la Repubbilca
«Che te serve, cosa posso fare?». Massimo Carminati, capo della Mafia Capitale portata alla luce dall’inchiesta della procura di Roma, nelle telefonate con i suoi referenti usava l’espressione resa famosa da Gaetano Caltagirone che, si narra, rispondesse alle telefonate dell’allora sottosegretario Dc Franco Evangelisti con un diretto “A Frà, che te serve?”.«Gli imprenditori devono essere nostri esecutori, devono lavorare per noi», a Salvatore Buzzi, suo braccio destro “imprenditoriale” Massimo Carminati, 56 anni, già militante dei Nar (Nuclei armati rivoluzionari), uno dei gruppi più agguerriti della galassia terroristica neofascista, poi approdato nella Banda della Magliana, che ora esce dalla sua villetta con le manette strette ai polsi. I lampeggianti della macchine dei carabinieri illuminano il suo volto incredulo. Dietro le lenti spesse che gli proteggono l’occhio sinistro colpito tanti anni fa da un proiettile sparato dai militari che cercavano di arrestarlo, si coglie ancora lo sguardo di sfida.Il “guercio”, come veniva chiamato negli ambienti dell’estrema destra romana negli anni Settanta, cerca di capire cosa si è infranto nella macchina affaristico- criminale che aveva contribuito a creare in quest’ultimo decennio. Sa che è finita. Anche dal punto di vista finanziario. Amante dell’arte, aveva investito parte dei proventi in opere: in casa sua sequestrano 25 quadri di Andy Warhol e Jackson Pollock.È finita. Ma l’ex terrorista dei Nar pensa di avere ancora delle carte da giocare. Se l’è cavata mille volte, sempre assolto. Magari in appello, dopo qualche mese di galera. Ma è tornato libero. Anche per il caso più oscuro di quella stagione di piombo: l’omicidio di Mino Pecorelli, direttore di Op ( Osservatorio Propaganda). Uomo schivo, silenzioso, iscritto alla P2, amico di Licio Gelli e dei vertici dei Servizi segreti. Ucciso con tre colpi di pistola la sera del 20 marzo del 1979. Usciva dalla redazione, nel quartiere romano di Prati, una copia fresca di stampa dell’ultimo numero del settimanale. Con l’ennesimo ricatto, il più emblematico: un titolo che svelava il vorticoso giro di tangenti ai partiti: “Gli assegni del Presidente”. Secondo Antonio Mancini, pentito della banda della Magliana, «fu Massimo Carminati a sparare assieme ad Angiolino il Biondo e Angelo La Barbera, killer di Cosa Nostra. Il delitto era servito alla banda per favorire entrature negli ambienti giudiziari e finanziari romani, ossia gli ambienti che detenevano il potere». L’assassinio di Pecorelli era un favore a Cosa Nostra.Carminati ne uscì assolto. Come le altre volte. Solo nel 1988, dopo una grande operazione della polizia e grazie alle rivelazioni di numerosi pentiti della Magliana, l’uomo nero fu condannato in secondo grado a 10 anni di reclusione. Scontò la pena solo in parte. Poi fece perdere le sue tracce. Sparì dalla circolazione, riparò in Giappone: terra scelta da tanti altri estremisti di destra inseguiti dalla giustizia. Prese tempo, si concentrò su se stesso. Cambiò. Solo in apparenza.Tornato in Italia, riannoda i fili, riprende i contatti che non ha mai interrotto con gli amici e gli alleati di un tempo. Molti sono morti, altri si sono solo riciclati. Gli anni degli scontri, delle riunioni al “Fungo” dell’Eur, degli assalti, delle aggressioni, delle protezioni con i Servizi segreti deviati appartengono al passato. Restano i legami con la destra di un tempo, oggi in doppiopetto. Soprattutto ora che Gianni Alemanno ha conquistato l’impossibile ed è diventato sindaco di Roma. È il momento di farsi avanti. Di presentare il conto. Di tessere quella tela che unisce i vecchi militanti e la grande criminalità.Questa volta per fare soldi. Con un senso di onnipotenza. «È il re di Roma che viene qua, io entro dalla porta principale...». Così parlava di sé Massimo Carminati, in un’intercettazione telefonica.