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 2014  dicembre 02 Martedì calendario

Roberto Gervaso racconta come ha sconfitto la depressione: «È una malattia come le altre, ma più terribile e forse più assurda. Alla fine si guarisce, ma ci vuole pazienza»

Riflettendo su questa malattia, una malattia come le altre, ma più terribile delle altre e forse più assurda, mi guardavo dentro e cercavo di capire com’è fatta la nostra mente, perché ci gioca questi scherzi, perché ci tormenta in questo modo, perché stravolge, drammatizzandola, la nostra esistenza. Cosa avviene in noi, quali germi si annidano nelle nostre sinapsi e ne alterano, paralizzano la funzione. Può essere una patologia dell’anima? Certo! Ma l’anima esiste? Quante volte me lo sono chiesto e mai ne ho avuto una risposta che non mi desse una certezza, ma almeno una speranza; se ci si ammala, perché ci si ammala? E perché ci si ammala senza preavviso, senza avvisaglie? Quale maleficio si compie nel nostro Io più profondo? Perché ci tortura? Cosa abbiamo fatto per meritarci una simile punizione, anche se non abbiamo nulla da farci perdonare? Abbiamo commesso un delitto? Siamo pronti a pagarne il prezzo. Qualunque castigo ci sarà inflitto lo subiremo. Perché solo attraverso le braci ardenti del pentimento, la nostra coscienza si risveglia e si riscatta, ci rimette in pace con noi stessi.
Quale maleficio s’insinua nella depressione? Chi decide che dobbiamo passare sotto le sue forche caudine, inermi e inerti, subendo e soffrendo?
Perché la natura che ho sempre amato e onorato e che considero il più grande dei doni elargiti da Dio all’uomo, mi diventa ostile? Perché gli alberi, di cui avevo gioiosamente accarezzato le foglie, rispettandole anche quando, ingiallite, d’autunno cadono foderando romanticamente i viali, sono diventati fantasmi? Perché il mio cane, anche il mio cane, il mio caro meticcio Cirillo che mi ha sempre tenuto la più tenera e discreta compagnia, si trasforma in una creatura indifferente e, se abbaia, fastidiosa? Perché i libri, che sono la mia vita, perdono ogni interesse? Perché distrattamente, meccanicamente li sfoglio senza leggerli e, se li leggo, lo faccio solo per dovere? Perché un film, i miei film culto, se mi capita di guardarli, non li vedo, perché quando la mente è altrove è difficile richiamarla? Perché tengo alla larga gli amici e, quando mi sono vicini, è come se fossero assenti? Perché la mattina non mi alzerei mai? Perché passerei la giornata a letto? Perché invidio l’ultimo clochard che incontro per strada, alla stazione, sui gradini di una chiesa? Non ha niente, non ha nessuno, vive alla giornata. Sì, ma vive. Io muoio. Quanto vorrei essere al suo posto, sepolto in una scatola che sembra una bara! Affamato, assetato, compatito da tutti. Il destino si è malvagiamente accanito contro di lui, ma gli ha risparmiato i morsi del «cane nero».
Il «cane nero», il «male oscuro», un’ossessione senza fine, che non ti dà tregua, non si placa mai. Una landa che ti si conficca nel costato, un coltello che ti scalca il cuore, un punteruolo che te lo trafigge e lo fa a brandelli. Chi non conosce questo morso feroce ti esorta a farti coraggio, a mettere alla prova, sino a sfidarla, la volontà, costringerla a reagire e a volgere a tuo favore il tuo dramma.
Ma la depressione è la malattia della volontà, è la sua perdita totale, il suo annullamento. Tu ti senti ancora peggio perché ti senti incompreso. Ma come ti può comprendere chi non è mai entrato in questo antro infernale, chi non ha mai varcato la soglia di un tenebroso labirinto senza fili di Arianna, senza bussola, senza niente? Un labirinto dove tu sei solo con te stesso, o quello che di te stesso rimane. E, intorno, minotauri, vampiri, draghi, serpenti, paludi melmose che t’inghiottiscono, baratri in cui precipiti senza rendertene conto. E strade tortuose che ti portano fuori strada e ignori dove ti condurranno. Tu vaghi, smarrito come un demente, agitato come un naufrago che non trova la riva, che non sa dove gettare l’ancora, perché l’ha perduta. Che cerca una zattera, la vede in lontananza, ma non riesce a raggiungerla e poi eccola svanire, sfocandosi e confondendosi con il più torbido orizzonte.
Esasperato e disperato, t’illudi di trovare uno sfogo nel pianto. Versi, singhiozzando, tutte le lacrime che hai nel cuore, ammesso che qualche frustolo ti sia rimasto, e vorresti morire, morire subito, di un colpo, e di colpo farla finita, non pensare più a niente, suggellando un’esistenza che non avresti mai immaginato così sadica, crudele, iniqua.
T’imbottisci di psicofarmaci, che ci vogliono, ma ben dosati: mai abusarne. L’effetto si fa sospirare e una mattina ti svegli con un’ansia che sfiora l’angoscia, ma che non è angoscia.
Piano piano, impercettibilmente, le ante della tua finestra si dischiudono, ma non puoi ancora affacciarti. Solo uno spiraglio, che vagamente fa filtrare un pallido raggio di luce. È l’inizio della rinascita. Ma non illudetevi: ci vuole pazienza.