Corriere della Sera, 2 dicembre 2014
Fidelio, il capolavoro di Beethoven, apre la stagione della Scala. Il testo dell’eroe della libertà è basato su un avvenimento realmente accaduto in Francia
Se il Parsifal è la più grande Opera mai scritta, se i Maestri cantori, il Falstaff e Il cavaliere della rosa sono le più deliziose Commedie musicali (con profonda riflessione sulla tragedia della vita) mai scritte, il Fidelio è l’Opera più celestiale mai scritta. Non ripeterò che si tratta del più potente documento artistico contro il Terrore giacobino pur se ripeterlo giova oggi che si tenta di contrabbandarlo siccome parto rivoluzionario. D’altronde rimandare ai miei minuziosi articoli pubblicati sul tema per i lettori del «Corriere» è poca cosa: intendo invece consigliare di nuovo il più bel libro mai scritto su Beethoven, quello monumentale di Piero Buscaroli che la Rizzoli ha per fortuna, dopo la prima edizione di dieci anni fa, ripubblicato nella Bur. È un’opera che onora la cultura italiana, che non ne è degna e non ha saputo recepirla; ma lo stato della cosiddetta musicologia è miserabile anche all’estero.
Nessuno come il Buscaroli ricostruisce la storia della composizione, del fatto storico che ne è all’origine, degli antecedenti operistici francesi e italiani. Io mi permetto di ricordare che per comprendere come il Terrore sia stato la più perversa macchinazione contro l’uomo mai escogitata occorre conoscere un’opera storica di Manzoni quasi sottaciuta e occultata, La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859. Saggio comparativo.
Non ripercorrerò antologicamente le bellezze della suprema partitura che resta tale a onta dell’appartener il Fidelio all’ibrido genere della Commedia musicale ( Singspiel ), con dialoghi parlati. Ma questi non preponderano e vanno rarefacendosi a grado che l’Opera prosegue. E, per ciò che attiene al Recitativo, Beethoven, con Abscheulicher, wo eilst du hin, nel primo atto, offre uno dei più potenti Recitativi accompagnati mai composti, direttamente rifacentesi alla Scena e Aria italiana Ah, perfido! che il giovane aveva scritta nel 1796 su versi di Metastasio. Ma avviene nel passaggio all’Opera qualcosa di magico: dal Mi bemolle maggiore della composizione giovanile il Sommo trascorre al Mi maggiore, ch’è il tono delle due più incantate Sonate pianistiche, l’op. 90 e l’op. 109, e del sublime Lied corale Opferlied. Leonora canta poi l’Aria con i tre corni soli che, nelle due sezioni, invocando la Speranza, è invocazione sì alta che dal lirico passa all’epos vergiliano; e tale invocazione possiede un inequivocabile accento religioso.
E infatti adesso giova dire che il testo drammatico del Fidelio, basato su di un avvenimento effettualmente svoltosi in Francia, spesso dileggiato dai musicologi e invece di grande qualità e intensità drammatica, viene accolto da Beethoven in una prospettiva che potremmo chiamare solo religiosa. Il Fidelio è il dramma della lotta per la libertà. Non si vuol negare il suo aspetto di viva attualità politica; e tuttavia i prigionieri che vengon portati alla luce dalla segreta nella quale giacciono (e Beethoven introduce il coro con vaganti accordi di dominante su pedale di tonica, giacché i prigioni sono abbacinati e non vedono) anelano alla libertà spirituale, e le catene, come quelle di Florestano, sono loro allestite dal peccato e dall’ignoranza. Il coro dei prigionieri ha inequivocabile carattere religioso; come lo hanno il duetto tra Florestano e Leonora quando ella ha messo in fuga il tiranno Pizarro; e tutto l’ultimo quadro del Fidelio.
Il rapporto stretto tra il Fidelio e la Nona Sinfonia non sfugge ovviamente a nessuno. Ma ciò assevera il mio asserto. Il carattere religioso (e non solo nazionalistico, come vuole il Buscaroli) della Nona Sinfonia mi pare palese: secondo me l’ultimo movimento è il vero e proprio Magnificat di Beethoven. Scrive Wagner: «Non sono le idee espresse dalle parole di Schiller che attirano la nostra attenzione ma il timbro cordiale del coro che ci attrae a unire la nostra voce a partecipare come comunità a un ideale servizio divino, quel che accade all’entrata del Corale nelle Passioni di Sebastian Bach».
Ciò tuttavia non toglie che a me la Missa solemnis paia artisticamente ancor più alta: Beethoven stesso la definisce «la mia opera più perfetta».
Ma carattere religioso e chiave dell’intera opera (torno al Fidelio ) è in un brano breve, prima facie un mero Recitativo, che però i sommi direttori d’orchestra ben hanno compreso affidandolo a cantanti di prima grandezza. Voglio citare soprattutto l’incisione meravigliosamente diretta da Karl Böhm che, se ha come Rocco Gottlob Frick, fa intervenire quale Don Fernando un sontuosissimo Martti Talvela. Del pari fa Karajan che nella sua incisione (uno dei punti più alti della storia del disco) affida il ruolo a Franz Crass. Don Fernando è il ministro di Stato che giunge in apparenza per ispezionare il carcere, in realtà per far trionfare ex alto la libertà: il suo Recitativo Des besten Königs Wink und Wille ( Per cenno e volere dell’ottimo de’ Regi ), che approda a elisia melodia ove si parla dell’umana fratellanza, ce lo mostra siccome autentico inviato divino; e la fratellanza alla quale egli accenna è evidentemente quella in Cristo: significativo, e particolare da solo bastevole a mostrare il continuo sforzo di perfezionamento di Beethoven nella costruzione, che nella Leonore esso manchi.
Di quest’incisione diretta da Böhm esiste un «video»: la regia di Rudolph Sellner ottiene una tale recitazione dagl’interpreti che, anche a non conoscere il tedesco, si comprende ogni parola. Un sol difetto possiede, e purtroppo gravissimo: tra il I e il II atto non fa la necessaria pausa e addirittura durante l’introduzione orchestrale assistiamo alla ridiscesa dei cattivi nelle segrete: anche i grandi commettono leggerezze inspiegabili. Tanto Böhm quanto Karajan non eseguono l’Ouverture Leonora n. 3 prima dell’ultimo quadro: quest’abitudine che io approvavo e venne seguita anche da Muti alla Scala oggi più matura riflessione m’induce a condannare: giacché anche questa grandiosa composizione contiene una tale sintetica rappresentazione drammatica dell’intera Opera da confliggere colla sua rappresentazione drammatica effettuale; né giova a difendere la prassi tedesca, risalente alla seconda metà dell’Ottocento e mettente capo a Hans von Bülow, il fatto che l’Ouverture venga collocata, si dichiara, dopo che tutti i conflitti drammatici sono risolti : ciò è mera apparenza: la risoluzione viene con il Recitativo di don Fernando e lo scioglimento delle catene.
La prima versione del Fidelio è la Leonore, o ur-Fidelio, in tre atti. Occorrerebbe fosse conosciuta assai di più essendo anch’essa celestiale. Il confronto col Fidelio è illuminante; a principiare dalle Ouvertures: quella in Mi maggiore, concentrata e veloce, è davvero l’introduzione in medias res; quella oggi denominata Leonora n. 2 è un capolavoro d’invenzione, costruzione e ampiezza: è più che un tempo di Sinfonia; ma Beethoven, che non sbaglia mai, ben ha fatto a metterla da banda esaurendo essa in parte l’interesse drammatico medesimo. Dicevo, è celestiale la Leonore : contiene una profluvie di meraviglie che Beethoven, dramatis causa, ha espunte dal Fidelio e che vanno conosciute di per sé, a prescindere dalla posizione drammatica loro. V’è il Terzetto Ein Mann ist bald genommen e il delizioso duetto tra Marcellina e Leonora Um in der Ehe froh zu leben, con violino solo; e una pagina che piangiamo noi per primi a calde lacrime è poi il sublime Recitativo di Florestano con oboe solo (nella Leonore – Fidelio l’oboe sembra avere una funzione d’incarnazione salvifica), prima del Duetto O namenlose Freude (III nella Leonore e II nel Fidelio ), Ich kann mich noch nicht fassen. Più in generale nella Leonore vi è una rifinitura musicale straordinaria: i brani in comune delle due Opere vi durano assai di più ( per esempio, il finale del I atto – II nella Leonore, che diverrà completamente diverso nell’Opera definitiva; e la stessa introduzione del II – III nella Leonore ) e duole che si perdano; ma la scorciatura drammatica del Fidelio è unica.
Una cosa fondamentale mi resta da dire. La Leonora e il Fidelio (le date estreme sono il 1805 e il 1814) in realtà principiano nel 1790, a Bonn, Beethoven ventenne. I musicologi, che capiscono pochissimo, giudicano opere d’occasione i due straordinarî capolavori di quell’anno, i quali dimostrano come non sempre il genio sia pazienza e accumulo ma possa apparire già tutt’intero all’improvviso. Precocità simile fa pensare più a Alessandro Scarlatti che a Mozart (a non considerare l’esplosione del genio quattordicenne con il Mitridate, Rè di Ponto, splendente anticipazione dell’ Idomeneo ); e il fatto che tali opere fossero scritte quando Mozart era ancor vivo mostra il divario fra i due Sommi. Si tratta della Cantata per la morte di Giuseppe II (che ascoltai per la prima volta in un’alatissima interpretazione di Franco Mannino), monumentale, e di quella, di poco successiva, più breve ma pur elisia, per l’intronizzazione di Leopoldo II. Ai nostri fini ci occuperemo della prima. Il testo si deve a uno sventurato di nome Averdonk che ricorda Giuseppe II, in realtà un sovrano meschino e tirannico, quale nemico dell’idra del fanatismo. L’indagine storica del Buscaroli ha chiarito perché l’opera, a causa del disprezzo onde Giuseppe II era universalmente avvolto, venne eseguita solo nel 1885, auspice Brahms. L’introduzione orchestrale già contrappone gli accordi che, in Fa minore e con anticipazione di Wagner, daranno inizio al II atto del Fidelio colla disperazione di Florestano nelle tenebre. Ma quando il testo dice «Allora salirono gli uomini alla luce» si ode una sublime melodia dell’oboe in Fa maggiore: essa tornerà identica al vero scioglimento del Fidelio, quando don Fernando avrà fatto liberare dalla stessa Leonora Florestano dalle catene e verrà cantato O Gott! Welch ein Augenblick! : ossia O Dio! Quale istante!
Quest’articolo si chiuda col ricordare un umile e grande libro che la Scuola italiana aveva quelli della mia generazione indotto a disprezzare senza conoscere per l’enfatico panegirico che ne faceva; un libro nato dalla lotta per la libertà e risalente alla considerazione religiosa della prigionia in quanto tale; di pochi anni al Fidelio posteriore (1832): Le mie prigioni di Silvio Pellico. Ivi la tirannia è absburgica, ma è tirannia non meno.