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 2014  dicembre 02 Martedì calendario

Lettera aperta al dottore che sta sfidando Ebola per la seconda volta – la prima da medico con lo scafandro addosso e ora da paziente isolato da tutto – nella nostra indifferenza più totale

Dottore, non c’è il suo nome sui giornali, uno striscione sulla facciata di un municipio, un hashtag virale. Ma tutti hanno sentito parlare di Lei: «Il medico italiano infettato da Ebola». 
Il primo. Ad assisterla c’è un’intera équipe dell’Istituto Spallanzani di Roma, eppure l’Italia potrebbe sembrarle lontana, come per noi la Sierra Leone. È solo l’effetto di quel virus che s’è andato a cercare e a combattere all’ospedale di Emergency a Freetown, nemico che semina paura e solitudine? Conosce quel distacco, lo conoscono i 50 operatori italiani che lavorano nella terra di Ebola. Lei è l’unico a viverlo due volte: da medico con lo scafandro addosso, da paziente isolato da tutto. 
Quanto il suo desiderio di privacy è conseguenza della nostra paura? L’ultimo bollettino, numero 7, dice che le sue condizioni «sono lievemente peggiorate». «Il paziente ha ricevuto la seconda infusione di plasma di convalescente, respira spontaneamente». È un sollievo che sia «normale la funzione renale», anche se la prognosi «continua a essere riservata». Non dovrebbe essere riservata a parole di circostanza, la consapevolezza di quanto sia importante il suo lavoro tra gli appestati di Ebola. Un’epidemia che ha fatto settemila vittime ha spinto medici e infermieri da diverse parti del mondo a prendere un aereo controcorrente e atterrare in Liberia, Guinea, Sierra Leone. Tra malati che vomitano l’anima e il virus, sotto una tenda che spesso dell’ospedale ha soltanto il nome. È uno sporco lavoro. È come il fango da cui emergono i rugbisti Azzurri che tanto ci inorgogliscono. Ma la paura del contagio, pur giustificata, non deve rendere invisibile la Nazionale di chi si gioca la vita in un’emergenza umanitaria. È la squadra di un medico anonimo che in una stanza super asettica in queste ore sfida il virus e (anche) il nostro senso di distacco.