Il Sole 24 Ore, 2 dicembre 2014
Per salvare l’Ilva ora il modello è quello di Alitalia. Allo studio la formazione di una cordata italiana con socio pubblico di maggioranza. L’intervento del governo punta a risolvere una crisi che negli ultimi mesi stava passando in secondo piano
Lo schema rappresentato da Renzi, per la risoluzione dell’enigma Ilva, costituisce uno scossone violento a una crisi che negli ultimi mesi – fra lettere annunciate e “folle” di investitori che mai si sono appalesate con l’assegno in mano – si stava come addormentando, di un sonno però funesto. I 125 milioni di euro dati dalle banche, sottoposte dal governo a una vigorosa pressione per non fare colare a picco il maggiore galeone della siderurgia italiana, costituiscono una aspirina.
Il primo problema – da quando la gestione ordinaria è diventata di natura commissariale – è naturalmente finanziario. Lo era con Bondi. Lo è con Gnudi. L’Ilva perde nella sua gestione ordinaria. Di mese in mese, l’entità del deficit dipende dalle condizioni di mercato e dal grado di funzionamento dell’impianto. I due miliardi e mezzo di patrimonio netto bruciati negli ultimi due anni e mezzo sono soltanto il risultato finale di conti che, dentro e fuori la fabbrica, non tornano. La questione di fondo, però, è sul nodo proprietario. Bondi faceva il plenipotenziario che di ogni cosa si occupa: per realizzare l’Aia da 1,8 miliardi di euro prevista dalla legge puntava ai soldi dei Riva a Milano (gli 1,2 miliardi di euro, sequestrati per presunti reati valutari e fiscali a trust riconducibili a Emilio e a Adriano Riva), secondo una classica mentalità da Mediobanca del Novecento non aveva alcuna difficoltà a immaginare che l’Ilva potesse nei fatti essere pubblica, da ristrutturatore duro e cruento pensava all’impresa e non ai proprietari (ricordate i Ferruzzi?), si disinteressava delle banche (ricordate Parmalat?), progettava una metamorfosi radicale basata sul preridotto, parlava soprattutto con il governo e aveva un dialogo istituzionale con la magistratura (non con quella tarantina, e questo è stato uno dei problemi). Gnudi, invece, ha provato a frenare il collasso della gestione ordinaria e, da commercialista consumato, ha cercato un acquirente. Anzi. Non un acquirente. Ma più acquirenti. Tutta la sua strategia è stata finalizzata a creare le condizioni perché vi fosse un’asta.
ArcelorMittal, interessata a intervenire con i Riva (a loro volta intenzionati ad avere un ruolo non operativo), ha prima accettato di operare da sola, quando il governo ha deciso di mettere fuori gioco la famiglia lombarda. Senonché, ad Arcelor Mittal si è poi unito il gruppo Marcegaglia, disponibile a rimanere in una condizione di netta minorità strategica, coerente con la sua minore capacità finanziaria. Il tandem Gnudi-Guidi, con la sua idea di trovare una soluzione il più possibile “di mercato”, ha spinto molto per fare emergere altre cordate. Così che la trattativa non si trasformasse in una scelta obbligata. Mirando a una parvenza di concorrenzialità, anche in un groviglio – industriale e giudiziario, legislativo e ambientale – per nulla armonioso quale è l’Ilva. Il ticket Guidi-Gnudi ha lavorato non poco nel tentativo di convincere Arvedi a unirsi con gli indiani di Jindal. Gli uni e gli altri – separatamente – hanno più volte visitato lo stabilimento. Peccato che gli indiani, che già avevano vagliato il dossier Piombino, volessero comandare.
Esattamente come, nell’altra cordata, comanda la multinazionale con radici franco indiane Arcelor Mittal. Arvedi, di fronte a questa alternativa, ha nicchiato. In ogni caso, anche grazie al profilo di imprenditore tecnologico e innovativo che ha fatto premio sulla debolezza finanziaria e sulla gracilità patrimoniale, il governo Renzi lo ha scelto come cavallo su cui puntare, in contrapposizione (o, almeno, in appaiamento) ad Arcelor-Mittal e a Marcegaglia. Un Arvedi a cui garantire, in una formula non ancora chiara nemmeno ai tecnici, la forza finanziaria della Cassa Depositi e Prestiti. Soltanto che, in questa ricerca di una soluzione “di mercato”, qualcosa si è incrinato. L’ultima lettera di Arcelor Mittal, oltre a porre condizioni di netta separazione fra il prima e il dopo rispetto all’esplosione del caso giudiziario, a chiedere certezze giuridiche non semplici da ottenere in un Paese come l’Italia e a domandare di fatto una revisione dell’Aia, non contiene cifre. Il famoso numero, da tanti atteso, non c’è. E non c’è anche per una ragione non di tipo negoziale, ma anche di tipo economico: nei fatti, secondo la logica di investitore prudente che deve contemperare il rischio giudiziario e costruire una offerta che non sia giudicata troppo male dai suoi investitori internazionali, la valutazione dell’Ilva si avvicina allo zero. Peraltro, va ricordato come il primo incontro di Arcelor Mittal con il governo risalga al 28 maggio. Tanto tempo, dunque, è passato prima che una lettera non vincolante, valida fino a Natale, venisse consegnata a Gnudi e alla Guidi.
È questo il contesto “tecnico” in cui si è sviluppata la scelta di Renzi, sempre molto attento a tenersi lontano dall’Ilva, di impossessarsi del dossier, che rischia di trasformarsi in una bomba atomica in grado di dissestare lo scenario elettorale verso cui si sta andando. Cessione a una cordata italiana (Arvedi più Cassa Depositi e Prestiti), vendita a investitori stranieri (appunto, la multinazionale Arcelor Mittal) e amministrazione straordinaria. Una ipotesi che circola da settimane. Ma che, adesso, diventa esplicita. E che ha, come passo successivo, il break-up fra bad company (a cui lasciare il passivo) e new company (a cui conferire gli impianti). Quest’ultima, almeno in parte, secondo uno schema Alitalia (Arvedi, banche e chi ci sta, anche fra i fantomatici stranieri) e con un ingresso pubblico di maggioranza. Non con un semplice portage: nazionalizzo, bonifico e poi rivendo. Né una operazione nostalgia: non una nazionalizzazione di matrice Iri, semplice semplice.
Piuttosto, un intervento diretto – concordato, o almeno accettato, in sede comunitaria – con una motivazione di tipo tecnologico ambientale. Battendo su questo tasto, fa capire una fonte vicina al dossier, l’operazione perderebbe ogni crisma di statalizzazione pura e semplice e assumerebbe il profilo di una pubblicizzazione di un problema ecologico. Magari anche con i soldi della Bei. Anche se, a quel punto, le criticità giuridiche si moltiplicherebbero. E, soprattutto, si porrebbe un problema di management: chi sarebbe in grado di gestire una operazione tanto complessa dal punto di vista politico e industriale? E chi dovrebbe sceglierlo? Intanto, mentre a Roma si ragiona, a Taranto si perde ogni mese fra i 25 e i 30 milioni di euro.