Libero, 2 dicembre 2014
Alda Merini e «quei miei amanti senza libido rimasti incastrati nei materassi». Sesso sbilenco, amore materno, antifemminismo per salvare la Storia: nel film “La pazza della porta accanto” il lato inedito della poetessa
Madre amorevole, donna devota e convinta antifemminista. Forse nessuno attribuirebbe questi appellativi alla figura di Alda Merini, di solito associata all’immagine dell’artista folle, libertina, anticonformista e dissacrante.
E invece, a sgombrare il campo dai vecchi cliché e a restituire la grande poetessa alla sua autenticità ci ha pensato, a cinque anni esatti dalla morte, Antonietta De Lillo, regista del docufilm uscito tre giorni fa nelle sale La pazza della porta accanto, prodotto da marechiarofilm in collaborazione con Rai Cinema e basato su un’intervista inedita con la Merini risalente al giugno 1995. Nel dialogo con la poetessa – una «chiacchierata amichevole», lo definisce la regista – emerge l’aspetto femminile più genuino di una donna vicina ai valori della Tradizione. La Merini, quasi una custode tradita del focolare domestico, parla del suo «fortissimo istinto materno» ed esibisce il dolore di una madre privata dei figli, costretta a «non avere più commensali a tavola» e ad accettarne la mancanza, dopo l’internamento in manicomio.
Nella confessione della poetessa si fa vivo anche il suo profondo senso del sacro, che la porta ad ammettere: «Se perdo la religione, perdo l’arte. La fede è la moneta più valida nella vita di un uomo, la chiave di volta. Senza di quella, l’uomo non riuscirebbe né a creare né a demolire se stesso”. Un legame col divino che riguarda anche il ruolo della donna all’interno del creato. Per la Merini è assurdo tentare di modificare la natura del genere femminile, sottraendole dignità e bellezza. “Non capisco proprio il femminismo”, avverte la poetessa. “La donna che vuole diventare uomo sovverte tutta la cultura passata. La donna deve essere se stessa”. Parole che palesano l’enorme distanza da chi, a sua insaputa, tentò di arruolarla in campagne a favore dell’autodeterminazione della donna e del diritto d’aborto.
Perfino il sesso, di cui la Merini era considerata gaudente discepola, è qui guardato con distacco, grazie a occhi insieme ironici e indulgenti. La poetessa definisce ridicolo e ripugnante l’atto sessuale ("Guardare due corpi che fanno l’amore fa ridere e allo stesso fa schifo"), e ricorda le scene buffe dei suoi amanti, che restavano incastrati nell’incavo tra i materassi del suo letto a due piazze, facendole così perdere la libido e la voglia di continuare a frequentarli. Nel racconto spuntano pure le «assurde scenate di gelosia» delle fidanzate dei suoi giovani fan, le quali temevano che la Merini potesse essere la loro amante, «anche se io potevo essere al massimo la nonna».
Triviale e comico, l’amore è però colto anche nella sua altezza metafisica di «grande interrogativo verso Dio e grande scomunica». Il delirio amoroso, avverte la Merini, «è insieme una bestemmia e un atto divino»; una sfida alle leggi della castità e un tentativo di emulare Dio che «a volte uccide gli amanti» proprio «perché non vuole essere superato in amore». Anche la poesia, a suo modo, è un affronto al Creatore nell’ambizione di ripeterne le gesta, e un inno a Lui nel cantare la meraviglia del creato. In questo doppio senso, come la Merini già scriveva in Santi e poeti, la sua prima poesia del 2 dicembre 1948, finora inedita, «bisogna essere santi per essere anche poeti». Il che non significa, come ha scritto Vito Mancuso su La Repubblica, che «si può essere santi senza Dio». Ma, anzi, che ogni atto generatore – quello di una madre o di un’artista – riproduce il gesto divino della creazione dal nulla. E ne imita la follia d’amore, in cui il delirio miracolosamente diventa lirica. Ecco cosa fu la «pazza» Alda Merini: nient’altro che una folle in Cristo.