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 2014  dicembre 02 Martedì calendario

Quelle maledette mail di Steve Jobs che inguaiano ancora oggi la Apple. A tre anni dalla morte, le cause contro Cupertino ruotano attorno al fondatore. Nelle sue parole la prova della guerra agli avversari senza esclusione di colpi

 È l’Arcangelo Lucifero della Rete, il personaggio più ammirato, emulato, venerato nella Silicon Valley. Ma anche il protagonista di una caduta agli inferi. Dalla sua morte in poi, il revisionismo storico su Steve Jobs avanza implacabile. Vi ha contribuito lui stesso autorizzando il proprio biografo ufficiale Walter Isaacson a scavare nel lato oscuro della sua personalità: per esempio il tardivo riconoscimento della figlia naturale, dopo un lungo e indegno rifiuto. A Broadway è andata perfino in scena un’opera di teatro-denuncia, sullo schiavismo degli operai cinesi della Foxxcon, la fabbrica degli orrori dove si assemblano iPhone e iPad, che Jobs si rifiutò sempre di visitare.
Ora l’opera di demolizione della sua figura prosegue, nei patri tribunali. Dove le cause contro Apple continuano a ruotare attorno alla figura del fondatore, tre anni dopo la sua morte. «Presente più che mai nelle aule dei tribunali, e non per il bene di Apple», commenta il New York Times. Una di queste cause, già persa da Apple, è stata raccontata su Repubblica: il processo per intesa oligopolistica ai danni dei dipendenti di Jobs. Fu lui a coinvolgere gli altri Padroni della Rete, a cominciare da Eric Schmidt di Google, in un patto scellerato di non aggressione: tu non rubi gli ingegneri a me, io non li rubo a te. Un modo per evitare la competizione per i talenti, e di conseguenza tenere bassi i loro stipendi (per rubarsi i migliori ingegni le aziende devono offrire aumenti). Anche in quell’occasione, a inchiodare Jobs fu lo stesso Jobs. In particolare un’email del 2006 in cui scriveva a Schmidt: «Mi dicono che la tua divisione di software per smartphone sta reclutando fra i miei che lavorano nella sezione iPod. Se è vero, ti chiedo di smetterla». Di lì a poco, alle minacce seguirono le profferte: ne nacque un patto di non-concorrenza sul mercato del lavoro che fu esteso ad altri giganti dell’economia digitale. Questa vicenda avrà un ulteriore rimbalzo giudiziario in aprile: i risarcimenti già concordati fra Apple e i legali di migliaia di ingegneri sono stati giudicati non abbastanza punitivi dal tribunale di San Jose, California, che quindi li ha annullati.
Ora si apre un nuovo processo, che ha inizio oggi a Oakland (sulla riva orientale della Baia di San Francisco). Stavolta al centro dell’attenzione c’è l’iPod, nelle prime versioni. Anche quell’oggetto, come molti prodotti lanciati da Jobs, fu veramente geniale. Esistevano già prima gli apparecchi per scaricare musica e ascoltarla, gli apparecchi mp3 che comprimono la musica in formato digitale. Ma l’i-Pod fu una rivoluzione, anzitutto estetica: come in altri campi, Jobs ebbe l’intuizione che le tecnologie potevano diventare oggetti di culto. L’altra innovazione decisiva fu l’abbinamento dell’iPod con iTunes, il gigantesco negozio digitale per comprare musica, poi anche audiolibri, libri, film. E la semplicità dell’acquisto, coi micro- pagamenti da 99 centesimi a brano. Ma proprio in quell’abbinamento si celava un sopruso. Le prime generazioni di iPod impedivano di accedere ad altri negozi digitali. Apple ti impediva di fare la spesa altrove. Questa dei “sistemi chiusi” fu un’ossessione di Jobs a lungo. Nel caso specifico, un’ossessione perseguibile come reato: ai sensi della legge antitrust. E ancora una volta è lo stesso Jobs ad avere disseminato le prove di reato. Sempre sotto forma di email: che mandava ai suoi collaboratori, intimandoli di «garantire che, quando Music Match (un concorrente di iTunes) lancia il suo negozio online, non sia accessibile dall’iPod».
C’è un terzo caso, anche quello finito in tribunale. Si tratta dell’intesa oligopolistica fra Apple e i maggiori editori americani, condannati per avere manipolato i prezzi dei libri al rialzo, danneggiando i consumatori. È ancora una frase di Jobs la prova del reato: «Sì, il cliente pagherà di più, ma è proprio quello che vogliamo». In quest’ultimo caso, Jobs non solo pronunciò l’affermazione galeotta, ma fu lui a citarla nelle lunghe interviste concesse a Isaacson per la biografia autorizzata. A conferma che Jobs, oltre a essere un genio, aveva un ego smisurato: sprovvisto di sensi di colpa e anche di senso del pericolo. Non si rendeva conto che leggi e regole, prima o poi, potevano applicarsi anche a lui.