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 2014  dicembre 02 Martedì calendario

La stabilità della Libia, le sanzioni alla Russia, l’alleanza con gli Stati Uniti, l’atlantismo, l’europeismo, gli scambi, le missioni di pace. L’interesse nazionale secondo il ministro Paolo Gentiloni

Appena rientrato da Abu Dhabi, è in partenza oggi per Bruxelles e domani per Basilea. Dagli Emirati Arabi Uniti ai vertici Nato e Osce. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni si destreggia fra crisi regionali e fusi orari seguendo una sola bussola che è, dice, «l’interesse nazionale». Ai tempi della guerra in Libia, nel 2011, «lo abbiamo tenuto presente in modo insufficiente, anche per via delle circostanze interne l’Italia ha avuto un ruolo secondario». Oggi implica una posizione di fermezza ma anche di dialogo con la Russia, consapevolezza della stabilità libica come priorità nazionale e tanti punti in comune con Berlino su Russia, Medio Oriente, Nord Africa. «Demonizzare la Germania sarebbe folle, anche se restano alcune distanze sulle politiche economiche europee». I cardini della nostra politica estera? «Atlantismo, europeismo, apertura a scambi e commercio, disponibilità a missioni di pace e per i diritti umani. Ma oggi non c’è più il bipolarismo né l’illusione degli anni ‘90 di un mondo omologato. C’è una grande instabilità, noi ne siamo al centro perché ci troviamo in mezzo al Mediterraneo. In questo nuovo contesto dobbiamo recuperare senza vergognarcene un concetto semplicissimo: l’interesse nazionale. Siamo europei e alleati degli americani, ma abbiamo un nostro occhio sulla geopolitica».
Un esempio?
«Vogliamo una grande coesione dello schieramento atlantico, e più Europa, in un giusto equilibrio con l’interesse nazionale. La politica estera non è un lusso per grandi potenze. Un Paese come l’Italia che ha 8mila chilometri di coste non può chiudersi. Siamo anche una delle 6-7 maggiori economie d’esportazione. Ci troviamo nel mezzo di una turbolenza o tempesta grave: da una parte ci sono le relazioni col nostro più grande vicino a Est, Mosca, dall’altra la fascia mediterranea nord-africana e mediorientale attraversata da uno sconvolgimento che mette in questione i confini fissati un secolo fa».
Sull’Ucraina quale posizione terrà al vertice Nato?
«Siamo stati sempre coerenti coi nostri alleati in sede Nato e Ue, abbiamo giudicato inaccettabile la violazione della sovranità ucraina, applichiamo le sanzioni alla Russia con assoluta trasparenza, eppure siamo convinti che siano un male necessario e non c’illudiamo che bastino a risolvere i problemi. Mosca rispetti la sovranità dell’Ucraina e Kiev proceda nelle riforme. Tutti noi europei sforziamoci di trovare una soluzione politica. A Basilea incontrerò il ministro degli Esteri russo, Lavrov, gli dirò che il nostro atteggiamento è determinante nel definire quello della Nato e della Ue, come lo è stato assieme ad altri Paesi europei al Consiglio Ue di metà novembre. L’approccio ideologico per cui siamo di fronte a una nuova guerra fredda non porta da nessuna parte. Paesi come Italia e Germania possono contribuire a tenere aperto il dialogo, se la Russia accetterà di rispettare i protocolli di Minsk».
L’Isis, detto anche Daesh, sta avanzando…
«Sosteniamo il contrasto a Daesh con armamenti e addestratori a Erbil in Iraq, con voli di ricognizione che cominceranno nei prossimi giorni dal Kuwait, e con aiuti umanitaria in Kurdistan e altre zone della Siria. Sul piano politico favoriamo una spinta più inclusiva verso le comunità sunnite da parte del governo iracheno e gli sforzi dell’inviato dell’Onu, De Mistura, per un cessate il fuoco ad Aleppo».
E in Libia?
«La Libia ci interessa più da vicino e coinvolge i nostri interessi nazionali da tutti i punti di vista: economico, politico, della sicurezza, migratorio... La priorità dell’Italia è impedirne la divisione permanente e ottenere il massimo coinvolgimento della comunità internazionale per la sua stabilità. Sono appena tornato da Abu Dhabi, abbiamo avuto a Roma il presidente egiziano Al Sisi, il premier Matteo Renzi va in Algeria, la prossima settimana sarò in Marocco. L’Italia è pronta a fare la sua parte in Libia anche con interventi di peace-keeping per i quali occorre però un processo di pace guidato dall’Onu e in Libia non siamo ancora in quella fase. Serve un governo provvisorio, un percorso istituzionale verso un nuovo assetto che tenga assieme i moderati delle diverse parti in conflitto. Solo a quel punto sarà ipotizzabile una presenza di monitoraggio o peacekeeping».
Il Califfato è già in Libia.
«La divisione della Libia e la sua instabilità hanno creato le condizioni perché a nord sul Mediterraneo, a Derna, e a sud nell’area del Fezzan al confine col Mali, ci siano concentrazioni di milizie e forze estremiste anche terroristiche. L’unico antidoto a questa penetrazione e infiltrazione è ricostruire una entità statuale che possa, magari con l’aiuto anche di forze dell’Onu, assicurare una graduale ripresa del controllo sul terreno».
A proposito di antidoti, è possibile che Daesh mandi kamikaze in Africa, li faccia infettare e li spedisca in Europa? L’Italia ha confini permeabili...
«Non sono esperto di malattie infettive, ma quello che mi viene detto è che i tempi di latenza e manifestazione di questo morbo sono poco compatibili con queste terribili vie delle migrazioni che durano a lungo e si sviluppano per settimane in condizioni tragiche. Comunque, per quanto si debba sempre tenere alta la guardia, va scoraggiata l’idea che qualcuno potrebbe alimentare, che dietro al migrante ci possa essere l’appestato. Un grande Paese come il nostro deve saper gestire l’immigrazione in base a principi di civiltà e umanità, e non seminare false paure».
Ma se tramite Ebola vi fosse un attacco terroristico organizzato che non segue le migrazioni clandestine?
«Francamente collocherei il problema di Ebola piuttosto su un altro piano, tra i rischi a cui la comunità internazionale deve rispondere con determinazione e rapidità per limitare la diffusione dell’epidemia in quei 4 o 5 paesi, 3 in particolare, dove si possono avere conseguenze drammatiche».
Il suo linguaggio sulla questione israelo-palestinese sembra un po’ diverso da quello di Federica Mogherini, più attento alla sicurezza di Israele.
«No. Rivendico una totale continuità della nostra politica estera. Parlo di continuo con Federica nella collocazione di responsabile della politica estera e di sicurezza della Ue. E siamo perfettamente allineati. La tempesta in corso rischia di mettere a repentaglio anche il percorso individuato da due decenni per arrivare alla meta, ossia che Israele possa vivere in sicurezza e la Palestina possa avere un suo Stato. C’è il rischio di un’escalation di tipo religioso del conflitto. Bisogna astenersi da atti gravissimi come quello della Sinagoga, ma anche da misure come le limitazioni all’accesso alla spianata delle moschee».
L’Italia voterà per il riconoscimento dello Stato palestinese all’Onu?
«Paesi come la Francia e la Giordania stanno lavorando per capire se siano possibili riconoscimenti senza scontrarsi con veti inevitabili nella dinamica delle Nazioni Unite. Per noi e per i Paesi europei il riconoscimento è sul tavolo, ma non può esaurirsi in una mera petizione di principio. Deve essere un mezzo da utilizzare al momento più opportuno per riavviare il negoziato. Per arrivarci davvero, allo Stato palestinese».