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 2014  dicembre 02 Martedì calendario

Il governo studia l’idea di rafforzare il suo intervento nel settore dell’acciaio con l’Ilva. La prima domanda che Renzi deve porsi non è dunque se è giusto che vent’anni dopo l’Iri lo Stato italiano rientri nell’acciaio, ma qual è il suo piano preciso per domani

Era l’inizio del 2002 quando George W. Bush imboccò una strada apparentemente estranea alla sua storia tutta mercato e poco Stato: annunciò tariffe del 30% contro l’acciaio cinese ed europeo. Un atto di protezionismo degno della Grande depressione. Da Tony Blair a Gerhard Schroeder, i leader europei della Terza Via erano fuori di sé. «Inaccettabile e sbagliato», tuonò l’allora premier di Londra.
Il governo di Matteo Renzi può oggi ripensare a episodi del genere, mentre studia l’idea di rafforzare il suo intervento proprio nell’acciaio. Certo l’Ilva di Taranto già da due anni in gestione commissariale – dunque pubblica – ha poco a che fare con la US Steel di Pittsburg, Pennsylvania. Ma quella di Bush figlio non fu né la prima, né l’ultima volta che Washington in questa generazione ha messo da parte i manuali di economia per arginare con il pragmatismo un’emergenza che può costare centinaia di migliaia di posti di lavoro, e voti anche in numero maggiore. Fra i suoi primi atti alla Casa Bianca, Barack Obama firmò un salvataggio da 80 miliardi di dollari per Chrysler e General Motors, licenziandone in tronco gli amministratori delegati. Washington divenne l’azionista di controllo di Detroit e poco dopo si impose come tale anche nelle banche di New York.
In questo secolo persino l’America è come la Cina di Deng Xiao Ping: non le importa se il gatto e bianco o nero, basta che prenda il topo. Se Renzi però estraesse da episodi del genere la certezza di avere carta bianca sull’Ilva e in futuro su chissà quale altra azienda in crisi, rischierebbe di sbagliarsi di grosso. Bush pagò a caro prezzo il suo protezionismo del 2002 e dovette rinunciarvi, per non subire feroci contromisure dall’Europa. E quella di Obama sull’auto fu tutto salvo che una svolta socialista: il presidente chiamò come «zar dell’auto» Steven Rattner, il più puro dei figli del private equity di Wall Street, e questi ristrutturò il settore con durezza. Sia per Gm che per Chrysler esistevano fin dall’inizio programmi di recupero industriale scaglionati con le tappe dell’uscita dello Stato dal capitale. Fiat entrò in gioco così. Quelle aziende ora corrono sulle proprie gambe e sono protagoniste nel mondo. La prima domanda che Renzi deve porsi non è dunque se è giusto che vent’anni dopo l’Iri lo Stato italiano rientri nell’acciaio, ma qual è il suo piano preciso per domani. Nessun inquilino di Palazzo Chigi, certo, può permettersi dubbi da purista: l’Italia ereditata da Renzi è un Paese con circa diecimila partecipate statali. Due terzi di esse svolgono mestieri che niente hanno a che fare con servizi di pubblica utilità, spaziando dalle amministrazioni di condominio fino agli allevamenti. Secondo stime di Confindustria, ripianare le loro perdite costa ai contribuenti circa 13 miliardi di euro l’anno ma la Legge di stabilità fa poco per costringere gli enti locali a disfarsi dei loro peggiori carrozzoni. Per capire l’effetto che la politica può fare sulle imprese non serve ripensare all’Iri di inizio anni ‘90 quando, su mille controllate, si contavano sulle dita di due mani quelle in utile. Basta guardarsi allo specchio oggi.
Questo non significa che Renzi di fronte all’emergenza industriale debba stare fermo. Che si torni a evocare l’intervento pubblico era forse inevitabile ed è anche il riflesso della timidezza degli investitori privati del Paese. Sulla trentina di maggiori acquisizioni in Italia dal 2012, ben due terzi sono state fatte da stranieri. Di quelle che restano la metà circa è opera della Cassa depositi e prestiti (controllata dal Tesoro) e solo l’altra metà viene da imprenditori privati italiani. Ma questi ultimi hanno puntato solo su immobili di lusso, aeroporti o gallerie commerciali: niente che li obblighi a varcare i confini nazionali con i loro prodotti e sfidare la concorrenza del resto del mondo.
Difficile dunque sorprendersi che vada di moda la Cdp, quasi fosse una nuova Iri. Prima però che la retorica nazionale la incoroni definitivamente, Renzi può fermarsi a ripensare proprio all’esempio di Obama: quando nazionalizzò l’auto, conosceva già il percorso da seguire e sapeva che alla fine avrebbe ceduto Chrysler a un’impresa straniera; sarebbe stata quest’ultima a creare i nuovi posti di lavoro. Numeri alla mano, è anche la realtà dell’Italia attuale: nessuno ha creato o difeso tanta occupazione nel Paese in questi anni quanto lo hanno fatto i gruppi francesi, tedeschi, americani o asiatici che si sono avventurati fin qui. Quale che sia il suo colore, il gatto alla fine dovrà pur acchiappare il topo.