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 2014  dicembre 02 Martedì calendario

La vera minaccia per la Cina arriva da Taiwan e Hong Kong, le “isole ribelli”. Il partito di governo sconfitto, il premier che si dimette e i giovani ancora in piazza: «Il regime prepara la repressione». Centinaia di arresti per le manifestazioni

Xi Jinping vuole riconquistare il Pacifico, ridimensionando gli Usa, ma i mari di casa tornano agitati. Le “isole ribelli”, Taiwan e Hong Kong, non si rassegnano ad essere riassorbite dalla super-potenza economica di Pechino. Le più vaste elezioni democratiche della storia, nel fine settimana, hanno scatenato a Taiwan un terremoto politico. Il Kuomintag, partito conservatore di maggioranza, è stato travolto dall’opposizione di riformisti e liste civiche. Il partito del presidente Ma Ying-jeou ha confermato solo sei sindaci su ventidue, perdendo anche Taipei. A trionfare nelle urne è stato Ko Wen-je, 55 anni, docente universitario indipendente, nuovo sindaco della capitale. Il premier Jiang Yi-huah è stato costretto a dimettersi subito: ieri hanno rimesso il mandato anche gli 81 esponenti del governo. Opposizione e opinione pubblica chiedono in queste ore le dimissioni dello stesso Ma Ying-jeou, due anni in anticipo rispetto alle presidenziali. Domani non è escluso l’annuncio dell’addio anche del leader, in carica dal 2008. Con il voto i taiwanesi hanno infatti bocciato l’avvicinamento del Kuomintag alla Cina, primo partner commerciale dell’isola. In marzo, dopo la firma di un piano di cooperazione economica con Pechino, gli studenti democratici avevano occupato per settimane il parlamento di Taipei, dando vita alla “Rivoluzione dei girasoli”. Solo la resa di Ma Ying-jeou, costretto a congelare il patto commerciale che avrebbe spazzato via piccole imprese e diritti, aveva riportato la calma nella capitale. A Taiwan però la voglia di indipendenza dalla Cina sale da mesi: prima gli scontri sull’arcipelago conteso anche dal Giappone, poi i tentativi di abbraccio economico, infine il pugno di ferro usato dall’autoritarismo di Pechino nell’altra “isola ribelle”, Hong Kong.
Taipei, indipendente dal 1949 e alleata con Washington, teme di fare la fine dell’ex colonia britannica, perdendo la propria democrazia. Destino che, a due mesi dall’esplosione della “Rivoluzione degli ombrelli”, si profila ineluttabile nella capitale finanziaria del Sud. A Hong Kong, nel quartiere commerciale di Mongkok e nel distretto politico di Admiralty, gli scontri tra studenti pro-democrazia e polizia filo-Pechino, sono ripresi con violenza. Centinaia gli arresti e decine di feriti, anche tra le forze dell’ordine. I leader del movimento, tra cui Joshua Wong, ieri sera hanno annunciato lo sciopero della fame. Poche ore prima gli studenti avevano dato l’assalto al parlamento cittadino e per scongiurare l’occupazione erano stati schierati cinquemila agenti, costretti ad usare manganelli e spray irritanti. Il palazzo del potere è stato chiuso e migliaia di funzionari non hanno potuto raggiungere gli uffici. Pechino ha avvertito che «la pazienza è finita», ha intimato ai manifestanti di non tornare nelle strade e invitato la popolazione a stare lontana da Admiralty. Nelle prossime ore si annuncia la repressione finale. Il movimento “Occupy Hong Kong” chiede elezioni democratiche a suffragio universale per il 2017, mentre la Cina ha varato una legge che limita la competizione a tre candidati scelti da Pechino. Fino ad oggi il più grande movimento democratico nato in Cina negli ultimi venticinque anni non è stato represso nel sangue, come in piazza Tiananmen. L’Occidente, spaventato dalle minacce economiche di Pechino, ha però voltato le spalle agli studenti di Hong Kong, isolati anche dal grande business della «regione economica speciale».
Pechino ha negato il visto ai giovani che volevano manifestare al vertice Apec e la stessa sorte è stata riservata ieri agli undici membri della Commissione esteri del governo britannico. Per la Cina l’addio alla democrazia a Hong Kong è una «questione interna», come la riannessione di Taiwan. I due simboli asiatici del capitalismo democratico sono di parere opposto: e chiedono al mondo di «non nascondersi dietro la crisi», ignorando la loro lotta per la libertà.