La Stampa, 2 dicembre 2014
Mujica lascia e l’Uruguay perde il suo eroe. Riforme, lotta alla povertà, eguaglianza senza mai farsi corrompere, così l’ex presidente è riuscito dove gli altri hanno fallito. Ora il Chisciotte nei panni di Sancho Panza tornerà a far politica
Con il presidente Mujica che chiude ora il mandato, se ne va uno di quegli eroi di cui la sinistra – e non soltanto quella rivoluzionaria dell’America Latina – ha sempre avuto bisogno. Ma se ne va anche una di quelle rare figure di cui oggi più che mai ha un disperato bisogno la politica, che ovunque va mostrando di marcire nella disgrazia della corruzione e nel maluso del proprio potere. Perché il presidente dell’Uruguay, davanti agli occhi piuttosto sconcertati del mondo, ha fatto della gestione della sua alta carica un modello (irripetibile?) di austerità, di stile parco di vita, di indifferenza alle lusinghe dei privilegi, e però anche di legittimazione del pragmatismo pur nel modello ideologico di un socialismo segnato dalle venature illusorie dell’utopia.
Proprio «Utopia senza armi» (Utopìa sin armas) fu il titolo di un importante libro che nei primi Anni Ottanta scrisse Jorge Castañeda immaginando che le lotte rivoluzionarie che in quel tempo avevano traversato con sangue e morte la vita politica dell’America Latina potessero alla fine evolversi in un processo di trapasso dalla guerriglia al dibattito parlamentare e all’assunzione della responsabilità di governo. Castañeda, giornalista della «izquierda» democratica, provò egli stesso a far politica, e fu anche ministro a Città di Messico; ma durò poco, capì di non reggere il compromesso della nuova scelta, mentre invece Mujica – che della guerriglia urbana dei Tupamaros era stato davvero comandante e s’era fatto 15 anni di carcere duro nelle galere della dittatura militare, prima d’essere liberato con l’amnistia del ritorno alla democrazia in Uruguay – passò stabile alla vita politica, e divenne deputato, senatore, ministro e, cinque anni fa, anche capo dello Stato, facendosi interprete straordinario e protagonista principale di quel passaggio utopistico dalla lotta armata alla leadership governativa, come d’una rivoluzione che trionfa legittimando se stessa nel confronto delle idee e dei programmi elettorali.
Ma la sua straordinarietà non sta tanto in questo successo ottenuto «sin armas», altri ci sono riusciti ugualmente, dal Brasile di Lula e della Dilma Rousseff al Venezuela di Teodor Petkoff, dal Messico dei suoi rivoluzionari fattisi uomini di governo all’Argentina degli ex Montoneros, e poi al Salvador, al Nicaragua dei sandinisti della prima ora, al Guatemala – è l’intera storia del subcontinente ad aver vissuto fin dagli anni di Bolívar questo confronto tra lotta armata e democrazia.
Mujica è però una storia a parte perché in questa sua seconda vita («l’isolamento in prigione, senza poter parlare con nessuno per anni, senza un libro da leggere, è come morire») ha praticato una scelta che ha trasformato gli ideali della sua vita rivoluzionaria in un mandato di potere dove quegli ideali astratti si facevano concretezza di comportamenti quotidiani scarnificati di ogni contaminazione con la logica propria del potere.
Se il suo governo ha introdotto misure di forte contenuto sociale e di netto miglioramento delle condizioni di vita (l’indice di povertà è calato dal 39 al 14 per cento), tutto questo era coerente con l’identità della formazione di sinistra, il Frente Amplio, che lo ha fatto eleggere, e con le ragioni di una coalizione di ben 27 partiti che comunque gli imponeva gli equilibrismi e i compromessi necessari della gestione politica; è stato invece davvero rivoluzionaria la gestione della sua vita quotidiana, con la residenza conservata nella sua modesta abitazione di periferia, il rifiuto delle prebende della sua alta carica, la rinuncia del 90 per cento del suo onorario (destinato a programmi sociali), la cancellazione di ogni formalismo, la rinuncia assoluta della cravatta, e sempre la sua vecchia auto dell’87.
Lo hanno chiamato «un Chisciotte nei panni di Sancho Panza», un Chisciotte e un Sancho Panza che dal 1° marzo continueranno a far politica dagli scanni del Senato, alla guida di uno di quei 27 partiti che hanno eletto il nuovo Presidente. Ma per liberare la sua storia dalla inevitabilità della retorica, bisogna calarla all’interno della storia del suo Paese, il più europeo dell’America Latina, nel costume, nel dibattito ideologico, negli stili di vita, perfino nella pratica della guerriglia rivoluzionaria dei suoi Tupamaros, più socialisti umanitari che castristi. E allora si capisce il senso di quella copia del David di Michelangelo che sta nell’atrio del municipio di Montevideo.