La Stampa, 1 dicembre 2014
Inghiottiti nei forni crematori, sfracellati contro i muri, centrati a colpi di pistola: la Shoah dei bambini. Dagli atti del processo Eichmann tradotte le pagine relative alle vittime più giovani
Che la memoria sia un valore e ricordare un dovere è cosa ormai assodata. Un dogma che non si discute, valido in assoluto. Ma non sempre è stato così, neppure a proposito di quella memoria divenuta tale per antonomasia, tanto da siglare una giornata apposita. La Shoah non è sempre stata l’oggetto di una commemorazione pubblica, non è sempre stata il simbolo del dovere morale di ricordare, per evitare che succeda di nuovo. Anzi.
Negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, di imperativo ne era in vigore un altro, di segno opposto: lasciarsi tutto alle spalle. Tornare a vivere. E per poterlo fare, per potersi svegliare ogni mattina e prendere sonno ogni sera senza lo sgomento di quel passato prossimo, sembrava necessario dimenticare. Quanto meno, tacere. Israele era allora il Paese con il più alto tasso di incubi notturni e urla dal sonno profondo. Ma i sopravvissuti tacevano, di giorno. Un po’ per continuare a sopravvivere, per non farsi distruggere dalla disperazione. Un po’ per l’indecifrabile vergogna di esserci ancora, mentre tutti gli altri erano morti.
Poi ci fu un evento cruciale, senza il quale la memoria non sarebbe diventata quello che è oggi. Nel 1960 Adolf Eichmann, la mente della Soluzione finale, viene individuato e catturato dagli israeliani in Sud America, dove conduce una vita perfettamente tranquilla. L’anno successivo s’inizia a Gerusalemme il suo processo, in una sala costruita all’uopo. Centinaia di sopravvissuti prendono posto sul banco dei testimoni, sotto gli sguardi della corte e dell’impassibile imputato. Centinaia di giornalisti di tutto il mondo seguono le udienze. Molte sono trasmesse per radio. In Israele e nel mondo intero si ascoltano per la prima volta, da quelle vive ma straziate voci, i racconti della Shoah. In quei mesi, la memoria diventa qualcosa di diverso da ciò che era prima. Parole, sguardi, silenzi. Anche il tonfo del corpo svenuto di Yechiel De Nur, che ha voluto testimoniare con il nome di Ka-Tzetnik (abbreviazione di «prigioniero del campo di concentramento») seguito dal numero che ha tatuato sul braccio, e non ce l’ha fatta.
Livio Crescenzi, archeologo e traduttore di letteratura americana, sta da molti anni lavorando alla traduzione italiana di quel documento indispensabile che sono gli atti del processo. Inspiegabilmente, nella mole financo ridondante di letteratura intorno alla Shoah di cui dispone e in cui ancora si profonde la nostra editoria, mancava questo tassello fondamentale. Forse perché si tratta di un lavoro immenso e minuzioso, che esige passione e commozione nel senso più alto del termine, il desiderio cioè di sentire e inevitabilmente soffrire, lavorando su quelle parole. Più che mai quando il tema sono i bambini della Shoah, come in questo secondo volume degli atti, pubblicato come il precedente dal benemerito editore Mattioli 1885 con il titolo Un fiore mi chiama (pp. 207, € 21,90) e una prefazione di Ernesto Galli della Loggia.
Sono pagine terribili. Non c’è altro modo per definirle. È una lettura che mette a dura prova, che ti provoca continuamente, che ti invita a ogni pagina a chiudere il libro, sbatterlo contro il primo muro, urlare che non è possibile. Eppure è così. Crescenzi ha metodicamente raggruppato le testimonianze per luoghi, momenti. Udienza per udienza. A partire dal ghetto di Varsavia dove più si era piccini più probabilità – per quanto scarsa – c’era di riuscire a contrabbandare un tozzo di pane di qua dal muro, sfuggendo alla sorveglianza. C’è la tacca su un altro muro, quello del dottor Mengele: sopra significava passare dai suoi esperimenti, sotto voleva dire essere troppo piccoli di statura, e finire immediatamente nelle camere a gas.
C’è un’infinità intollerabile di neonati strappati alle braccia delle madri e sbattuti per terra per fracassargli il cranio. Ridendo. C’è quel bambino rimasto un anno nascosto in cantina con la consegna del silenzio, che a distanza di tanto tempo ancora sussurrava invece di parlare, per paura. C’è anche il sedicenne che Eichmann uccise perché aveva rubato due ciliegie dal suo albero. Era in una squadra di lavori forzati al servizio «domestico» e fu probabilmente l’unico caso in cui la bestia nazista ammazzò qualcuno direttamente, con le proprie mani. Il suo avvocato difensore si accanisce contro questa testimonianza, perché tutta la sua strategia è basata sul paradosso di un capo d’accusa fondato sulla responsabilità di più di sei milioni di morti, e nessun (o quasi nessun) omicidio compiuto in prima persona.
Eichmann venne giustiziato il 31 maggio 1962 perché ritenuto colpevole di crimini contro l’umanità, nella piena consapevolezza che la pena, per quanto capitale, non era commisurata all’immensità della colpa. Momento cruciale della storia di tutti noi, chiave di volta del nostro approccio alla memoria, il processo Eichmann è anche, forse soprattutto, la resa di ogni possibile giustizia di fronte a un milione e mezzo di bambini inghiottiti dal fumo dei forni crematori, sfracellati contro il muro, centrati da un colpo di pistola, sepolti dentro una fossa comune.