Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  dicembre 01 Lunedì calendario

Sciaboletta, Berty Night o Mortadella. Sessant’anni di soprannomi azzeccati e politicamente scorretti. Da Scalfari a Dagospia, passando per Pansa e Travaglio, le penne che non hanno mai risparmiato nessuno

Ritrovarne la paternità a volte è difficile. Certe cose nascevano in osteria, dove lo snobismo degli inviati si faceva volgare perché - spiegava Ennio Flaiano - la satira non può che essere volgare. Cattiva e volgare. C’era del vero anche in Mario Melloni, passato ai posteri col nomignolo shaekespiriano di Fortebraccio: “Sono un giornalista d’élite. Scrivo solo per i metalmeccanici”. Per Forte-braccio i politici erano lor signori, manco si degnava di pronunciare la parola parlamentare . Memorabile - ripresa poi anche da Roberto Benigni - la battuta fulminante sull’onorevole Antonio Cariglia, già segretario dei Social democratici: “Si aprì la portiera dell’auto e non scese nessuno: era l’onorevole Cariglia”. Oppure Giuseppe Saragat che Fortebraccio chiamava Diger selz. Un centometrista del trafiletto, disse Indro Montanelli, nonostante non lo avesse mai amato e che era suo nemico. Un nemico stimato e temuto.
La premiata ditta Pansa e Scalfari
Ma in quegli anni prosperosi di vezzeggiativi, ne vennero fuori di memorabili. Gianni De Michelis, socialista, grande appassionato di discoteche, era diventato “avanzo di balera”. Non conosciamo la paternità, ma resta uno dei più azzeccati, anche e soprattutto perché a chiamarlo così erano negli anni dello splendore socialista, quando potevi dirlo all’osteria che i socialisti rubavano, ma se ti capitava di ammiccarlo in televisione veniva estratto il cartellino rosso. Forse di più. Craxi sorseggiava a Milano e si mangiava Roma in un sol boccone. Prudente esserne amico. Guai rivolgersi a Bettino, per un ventennio l’uomo più potente e tenuto d’Italia, chiamarlo come sussurravano nei corridoi, il “cinghialone”, creato su misura da un giovane e già rampante Vittorio Feltri. Neppure Gianpaolo Pansa che lo sfotteva, eccome se lo sfotteva, poteva permettersi una cosa del genere. Neanche Sandra Bonsanti che era tra le poche giornaliste a presentarsi in via del Corso, storica sede del Psi, con domande vere. Poi Bonsanti arrivava da una storia, quella del Mondo di Pannunzio, dove i giornalisti erano austeri. Non era il suo stille affibbiare nomignoli.
Poi c’erano i corridoi delle redazioni dove si fumavano le sigarette e si urlava, tipo l’Espresso, la stessa Repubblica , Il Giorno, per un certo periodo. E dove inevitabilmente qualche capo diventava, tocca scomodare ancora Flaiano, il redattore cupo. Questione d’irriverenza, ironia. Difficile che qualcuno, a suo tempo, sia andato a riferire a Vittorio Emanuele III che, per via della statura, lo chiamavano sciaboletta (nomignolo che anni dopo sarebbe stato affibbiato a Claudio Scajola), allo stesso modo, in epoche diverse e successive, era improbabile dare dell’acido russico a Giancarlo Pajetta. Non aveva un carattere facile e l’ironia l’aveva riposta in un cassetto già da piccolo. Era capace di sfuriate per un niente. Non l’avrebbe presa bene neppure Tonino Tatò, l’uomo ombra di Berlinguer, non a caso chiamato suor Pasqualino, soprannome inventato da Alberto Ronchey per paragonarlo alla monaca occhiuta e invadente che governava Pio XII.
Nell’eterna lotta tra il democristiano Beniamino Andreatta e il socialista Rino Formica, il primo dette del commercialista di Bari al collega di governo. Che, di rimando, lo nominò a Comare-Lord dello Scacchiere. Nelle tangenti alla amatriciana, quella della Roma un gradino più in basso, Sbardella era invece lo squalo Giubilo. Parliamo di pianeta Democrazia cristiana e non si può fare a meno di Giulio Andreotti, oltre mezzo secolo di potere da protagonista assoluto: negli anni era diventato Belzebù, il gobbo, il papa nero, la volpe, l’indecifrabile, divo Giulio e zio Giulio , con malizioso riferimento al processo dal quale venne assolto per il famoso bacio a Totò Riina.
Non la prese bene nemmeno Gianni Agnelli quando Eugenio Scalfari, in prima pagina su Repubblica, gli dette dell’avvocato di panna montata. Gli venne bene, ma barbapapà, come lo chiamavano i suoi cronisti con velo di reverenza e timore, sapeva e sa bene ancora oggi quando essere allusivo o molto diretto. Sempre in casa Fiat, fu Susanna Agnelli a definire Luca Cordero di Montezemolo, libera e bella, dalla marca di uno shampoo. Non venne salvato, a suo tempo, neppure Raul Gardini, che quando era potente fu uno degli uomini più viziati (dai giornalisti) d’Italia. Era il “contadino” per via delle origini non nobili e perché contadini lo sono anche i romagnoli. Poi divenne il condottiero e, alla fine, il contadino-condottiero. Quando Tonino Di Pietro lo accusò tornò e il cognato Carlo Samma lo estromise dalla Montedison, torno a essere il contadino.
L’irriverente Dagospia
Non sarebbe piaciuta a nessuno. Neppure Silvio Berlusconi ha mai preso bene le caricature che nel tempo ne ha fatto Marco Travaglio: era il cainano, bellachioma, al tappone e, in tempi più recenti, papi, per via di quella storia delle Olgettine, ragazze che abitavano in un residence di via dell’Olgettina, appunto, a Milano, zona San Raffaele.
E a proposito di Milano, per anni, ci fu il sindaco cognato, che altri non era che Paolo Pillitteri, colpevole e meritevole di aver sposato la sorella del cinghialone, appunto. Fu Pansa, invece, ad affibbiare i nomignoli di dottor sottile e coniglio mannaro rispettivamente a Giuliano Amato e Arnaldo Forlani. Romano Prodi è stato semplicemente mortadella, per via delle origini emiliano-bolognesi e per il carattere apparentemente molle.
In tempi più recenti è stato l’irriverentissimo Roberto D’Agostino a spararle su tutti. Così Fausto Bertinotti è diventato Berty Night, Alessandra Mussolini la duciona, Concita De Gregoria la sora Cecioni (il compagno si chiama Cecioni davvero), Pierferdinando Casini Pierfurby, Maria De Filippi la sanguinaria, Simona Ventura la mona (serve un vocabolario dal veneto), Ferruccio de Bortoli flebuccio, Daniela Santanchè è la santandechè, Alemanno-Aledanno, Gru-ber è lillibotox e, solo per citarne alcuni, D’Agostino ne ha per tutti, Signorini è diventato Alfonsina la pazza.
Da quando ha accentuato la passione per la politica, anche Beppe Grillo ne ha scoperti e rispolverati di vezzeggiativi. Sempre molto diretto, viaggio su un pericoloso bilico tra l’ironia e l’offesa. Se Mario Monti era diventato rigor montis e Pier Luigi Bersani Gargamella, per via della somiglianza col personaggio dei cartoni animati, Matteo Renzi è da subito, nel gergo grillesco e grillino, l’ebetino, Berlusconi psiconano o testa aflatata, Renato Brunetta è brunettolo, causa statura, Roberto Formigoni forminchioni, Maurizio Gasparri la fattucchiera, e per chiudere con Giorgio Napolitano Morfeo o vecchia carampana, dipende dai giorni.
Le stagioni del grillismo
Con gli anni della normalizzazione anche i nomignoli si sono ammorbiditi. Nelle redazioni dei giornali, con l’eccezione di Travaglio, il tono si è fatto più interlocutorio, meglio non avere troppi nemici, spiegano gli editori. Figuriamoci per un soprannome.
Per mancanza di coraggio, ma anche perché per essere cattivi bisogna essere geniali. E di talenti in giro ce ne sono pochi. Maria Elena Boschi è diventata semplicemente la Pantera della Leopolda, causa un paio di scarpe maculate. Ma il nomignolo, seppur banalotto e sicuramente non offensivo, lo hanno lasciato per strada quelle penne che alla Leopolda vanno e gli garba assai essere chiamati dai renzisti per nome di battesimo. C’ è anche da dire che gli ultimi governi sono degni di poca nota, i ministri ormai vanno e vengono, difficile è ricordare il nome, figuriamoci il nomignolo. O il soprannome