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 2014  dicembre 01 Lunedì calendario

La seconda vita di Ruggero Jucker, libero dopo 11 anni. «Dimenticatevi di me» dice il rampollo della nota famiglia della borghesia milanese che nel 2002 uccise con 22 coltellate la fidanzata. Ora non ha amici e aiuta la madre nell’attività di catering. «Non voglio parlare né del passato né del presente»

Popi – il ragazzo che vendeva costose ma buone zuppe in via Pasquale Sottocorno – non c’è più. L’uomo che stringe la mano voltandosi dopo essere stato chiamato per nome, lungo la strada, risponde solo a un meccanismo di rigida e borghesissima educazione da cui non può prescindere: lo sguardo gelido seppur pacato, lontano e vicinissimo, è quello di chi sa di essere destinato all’oblio per il resto della vita, senza possibilità di replica.
Un’alternativa è impensabile: quelli come lui non frequentano i locali alla moda o posano per i selfie con gli amici, non vanno nemmeno in vacanza, difficilmente tifano per una squadra anche perché hanno perso l’entusiasmo per farlo. Possono uscire di casa non prima delle 7 e rientrare non oltre le 23, ogni mese vanno a firmare al commissariato. E soprattutto, molto raramente parlano con i giornalisti, li evitano come la peste. Quando va bene vengono protetti in bozzoli delicati ma dai confini impenetrabili da genitori che li custodiscono con un amore senza confini, condividendone il destino di solitudine e accettando loro stessi una vita dimezzata, popolata da pochi e selezionatissimi amici, condannati loro stessi al silenzio, pena l’allontanamento immediato.
Per questo non ci aspettavamo certo che Ruggero Jucker, da sempre «Popi» per la sua cerchia – atteso in una mattina di pioggia davanti al commissariato milanese dove un giorno al mese va a firmare e poi torna a casa, un appartamento tra piazza Cinque Giornate e piazza Tricolore accanto a quello della madre – si dimostrasse affabile, accettasse di parlare di quello che è diventata oggi la sua vita, magari davanti a un cappuccino fumante. «Ma io non concedo mai interviste! – sorride sorpreso, quasi ironico -. Dimenticatemi, non parlo del passato o del presente, non parlo e basta» aggiunge ma solo perché insistiamo con le domande. Quindi si volta e tirandosi il cappello antipioggia a tesa larga sulla testa se ne va. Tampinarlo ostinatamente e continuare a parlargli di quel che vorremmo sapere, cioè del suo presente, è totalmente inutile.
Probabilmente, per riuscire in qualche modo a sopravvivere, per non impazzire completamente, quest’uomo che ormai ha compiuto 48 anni, deve aver cancellato la folle notte di luglio del 2002 che gli cambiò per sempre l’esistenza, distruggendone un’altra. Faceva un caldo insopportabile quel sabato mattina (la pioggia sarebbe arrivata a rinfrescare qualche giorno dopo) quando in questura dissero che Ruggero Jucker «quello della zupperia di via Sottocorno, il figlio della Lalla che organizza catering con i ragazzi di buona famiglia, suo nonno ha donato una collezione d’arte a Milano!» aveva ucciso nel suo centralissimo appartamento di via Corridoni la fidanzata di dieci anni più giovane, ferendola con un coltello per tagliare il pesce. Sembrava una storia troppo strana anche se a raccontarla era la polizia, gli investigatori della squadra mobile. Chi era quindi esattamente lui? E lei? Con quel nome un po’ alternativo poi: Alenya.
Solo più tardi si seppe che era stato un vero e proprio massacro dagli aspetti quasi osceni, comunque oltre la comprensione umana, oltre tante cose mai viste prima o ricordate. Urla terrificanti avevano squarciato il buio della notte. Jucker, nudo e pieno di sangue in mezzo alla strada, gridava: «Io sono Osama Bin Laden, sono Satana, sono la gatta Jucker! Un, due, tre buonanotte!». Alenya? Era già stata fatta a pezzi. E con questa espressione non si vuole semplificare il concetto. Lei e Popi erano a letto quando la follia di lui era scoppiata dopo aver fumato uno spinello particolare. «In quel periodo a Milano, in Europa, circolava marijuana con principi attivi molto alti» spiegò in seguito la polizia. Quando la ragazza si accorse che il suo uomo stava male era tardi. Cercò di telefonare, ma lui glielo impedì. E correre nel bagno tentando disperatamente di non farlo entrare (chiavi nelle porte non ce n’erano in quella casa) non era servito: lui l’aveva raggiunta, colpita con 22 coltellate, più una ferita di 43 centimetri al ventre e resa irriconoscibile al punto che la Scientifica ritrovò un pezzo del suo fegato in cortile.
Uscirono tante notizie, confuse anche dall’enormità di un gesto tanto incomprensibile quanto violento. Gli Jucker non parlarono mai. L’unica intervista la madre di Popi, la signora Lalla, la rilasciò subito dopo il fatto a una cronista amica: «Ricordo Alenya a cena da noi, educata, una persona pulita. Ma ora devo pensare al mio Popi» concludeva la madre di Ruggero. Tanto sangue, tanta follia finivano per stridere da una parte con una formalità eccessiva verso una ragazza innamorata e massacrata e dall’altra con l’attenzione spasmodica focalizzata su un uomo che, pur essendo suo figlio, aveva compiuto un’azione ignominiosa.
Studentessa di Scienze politiche alla Statale, a pochi esami dalla tesi e commessa in un negozio famoso, il «Wp Store» di via Borgogna, bellissima, occhi neri, perbene, Alenya venne accompagnata al camposanto dalla melodia struggente del brasiliano Jobim che cantava «La ragazza di Ipanema». La sua famiglia si chiuse nel dolore che anche il generoso risarcimento (1,3 milioni di euro) non poté e non può lenire.
Popi venne riconosciuto seminfermo di mente ma in primo grado, il 24 ottobre 2003, fu condannato a 30 anni di carcere più tre di ospedale psichiatrico. Detenuto modello, prima rinchiuso nel carcere di San Vittore e poi in quello di Bollate, Ruggero studia, lavora il vetro. Due anni dopo la sentenza diventa definitiva, ma i giudici, stabilendo l’equilibrio tra le aggravanti e le attenuanti, dimezzano la pena a 16 anni. Nel luglio 2006 poi c’è l’indulto con il quale Jucker ottiene tre anni di sconto di pena; inoltre, per ogni anno di carcere già scontato, il condannato (in cella dal luglio 2002) guadagna tre mesi per buona condotta. Uno psichiatra, pagato dalla famiglia, lo incontra regolarmente e lo cura, facendogli seguire un programma di recupero che attenua la necessità del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario mentre i 16 anni diventano meno di 11: Ruggero «Popi» Jucker è libero dal 12 febbraio 2013. Dieci anni e 6 mesi di carcere, giorno più giorno meno. All’inizio la gente s’indigna, Jucker sparisce. Poi qualcuno lo nota mentre va o torna dal commissariato. Una tivù lo filma, un giornalista lo avvicina. Lui dritto cammina per strada veloce, una cuffia in testa, le mani in tasca, non una parola. Come Enrico Cuccia con il vice Gabibbo Stefano Salvi anni fa. Poi sulla sua vicenda cala il silenzio.
«Popi? La prima volta che l’ho incontrato per strada mi sono voltata dall’altra parte. Non so, è stato un riflesso condizionato. E se inizialmente ero fiera della mia reazione, poi me ne sono pentita – racconta una vecchia amica dei tempi della scuola che ci riceve in una delle più belle dimore di Milano, ma impone l’anonimato -. Conosco amici intimi della madre e qualche volta chiedo notizie di lui. So che ha una vita normalissima molto tranquilla, non ha amici, non frequenta nessuno e parlare con lui del passato, di quel che ha fatto, è assolutamente proibito. In un primo tempo ho creduto che lavorasse in un ristorante, attaccato a casa sua e, credo, ancora proprietà della famiglia. Poi ho saputo che ha un ruolo molto più defilato e dà una mano a sua madre nell’attività di catering. Attività che, peraltro, prima dell’omicidio, aveva sempre svolto anche dopo aver aperto la zupperia». A quel punto le mostriamo la foto di Popi, quella che appare in questa pagina, fatta la mattina stessa. Le scende una lacrima. «Lo sa? – dice con gli occhi rossi – Non soffrono solo i parenti di Alenya. Sono dodici anni che noi, che a Popi abbiamo voluto bene condividendo sin dall’infanzia tanti momenti della sua vita, continuiamo a chiederci perché abbia fatto tutto questo. E restare senza risposta è come essere privati di una parte di lui. Una parte che, forse, nessuno ha voluto vedere».