la Repubblica, 1 dicembre 2014
Nader Alemi, lo psichiatra dei Taliban depressi. «Così curavo le loro nevrosi». Tra i suoi pazienti anche Akhar Osmani, il braccio destro del mullah Omar: «Sentiva delle voci, delirava. Le sue guardie del corpo raccontavano delle sue farneticazioni notturne»
Il potere logora anche i fondamentalisti islamici, e la guerra ne corrode lo spirito. Gli anni in mezzo alla neve delle montagne afgane, i combattimenti e le fughe, la lontananza dalle famiglie, la visione dei compagni caduti: tutto colpiva nel profondo i Taliban, durante l’ascesa verso la realizzazione dell’emirato islamico e persino dopo, sotto la guida del mullah Omar. Dietro l’apparenza di guerrieri indomabili, anche gli “studenti coranici” nascondevano anime ferite e coscienze inquiete, a sentire il racconto del dottor Nader Alemi, psichiatra a Mazar- i-Sharif già al momento della conquista delle milizie integraliste, nel 1998.«Venivano con un pezzo di carta dov’era scritto il mio nome», ha raccontato lo specialista alla Bbc, «mi dicevano che avevo curato un loro amico, potevo dare una mano anche a loro. Molti non avevano mai visto un medico prima di allora», tanto meno uno che parlasse il pashtu. Voglia di farla finita, depressione, pianti: in migliaia hanno raccontato al medico le loro ansie.Persino il braccio destro del mullah Omar, il governatore Akhar Osmani, aveva chiamato il dottor Alemi per farsi visitare: «Sentiva delle voci, delirava. Le sue guardie del corpo raccontavano delle sue farneticazioni notturne». A volte il numero due dell’emirato non riconosceva nemmeno i collaboratori: «Era stato al fronte per chissà quanto tempo, aveva visto innumerevoli persone uccise. Quelle esplosioni e quelle grida continuavano a risuonare nella sua testa, persino quand’era seduto nella tranquillità del suo ufficio», racconta Alemi. Ma gli impegni continui nella gestione dell’emirato impedivano ogni continuità nella terapia: lo psichiatra poteva vederlo solo raramente, fra una missione e l’altra, fino a quando, nel 2006, il mullah Akhar è morto in un bombardamento.La sofferenza senza fine ha messo alla prova la salute mentale di tutti gli afgani: secondo il ministero della Sanità di Kabul, due terzi della popolazione soffrono di problemi mentali. Nel 2002 un rilevamento del Centro Usa per il controllo e la prevenzione delle malattie ha registrato alti livelli di depressione, ansia e sindrome da stress posttraumatico. Fra i più colpiti, le donne e le persone disabili.Il disagio era tanto evidente che i Taliban accettavano di spedire da Alemi persino le mogli e le figlie, violando la consuetudine dell’apartheid di genere per dare alle donne di casa, anch’esse provate dalla lontananza, una qualche assistenza psicologica. E la famiglia di Alemi approfittava della posizione per correre qualche rischio in più, con la moglie del dottore che gestiva a poca distanza una scuola clandestina per ragazze, in pieno regime di divieto. «Se pure ci avessero scoperto, non credo che avremmo corso pericoli. Avrebbero accettato tutto, in fondo volevamo solo aiutare gli altri», dice il medico.Anche adesso il dottore dei Taliban vede file di pazienti in attesa davanti al suo studio: persone che lamentano incubi, depressione, sbalzi d’umore. Le ferite nell’anima degli afgani non sono rimarginate.