Corriere Economia, 1 dicembre 2014
Germania e Gran Bretagna sono i governi che hanno speso di più per salvare le banche in crisi, l’Italia è solo in coda. Berlino ha messo quasi 250 miliardi di euro, Roma si ferma a 4. Un problema di competitività che spessa non si vuole vedere
Numbers never lies: i numeri non mentono mai. Soprattutto in banca, dove i numeri possono cambiarti la vita e, certamente, la percezione che se ne ha. Se ne è accorto subito, fin dall’inizio del suo mandato, il presidente dell’Abi, l’Associazione delle banche, Antonio Patuelli. A fronte di raccapriccianti casi di mala gestio e di una crisi che nessun manuale universitario era riuscito ad immaginare, le banche italiane scontano un pregiudizio negativo a volte ingiustificato.
È il caso degli aiuti di Stato agli istituti in crisi. Lo dicono i numeri. Tanto che, negli ultimi giorni, alla protesta, di parte, dell’Abi si è aggiunta quella istituzionale e non convenzionale del Mef, il ministero dell’Economia e delle Finanze, che ha addirittura inaugurato un hashtag, il simbolo del web (#) finalizzato a individuare una storia, una versione dei fatti. Il Mef c’è andato giù duro: #prideandprejudice, ha scritto, ma Jane Austen non c’entra.
Pregiudizi
C’entrano, piuttosto, i pregiudizi che popolano il mondo della finanza internazionale e che, come scrive il Mef, dimenticano come l’Italia sia «uno dei paesi principali del mondo sviluppato, il secondo paese per produzione manifatturiera in Europa, la terza economia dell’Eurozona». Quanto alle banche, poi, e agli aiuti che i vari governi avrebbero dirottato verso gli istituti in difficoltà, il confronto si fa durissimo, a spese soprattutto dei paesi percepiti come più virtuosi e, in verità, solo più sistemici: Germania e Gran Bretagna. Lo ha sostenuto recentemente anche la Banca d’Italia: «Per un corretto confronto internazionale dei risultati va ricordato che, secondo i dati pubblicati da Eurostat, i sistemi bancari e finanziari dei vari paesi dell’area dell’euro hanno beneficiato negli anni scorsi di cospicui interventi da parte dei governi, quasi 250 miliardi in Germania, quasi 60 in Spagna, circa 50 in Irlanda e nei Paesi Bassi, poco più di 40 in Grecia, circa 19 in Belgio e in Austria e quasi 18 in Portogallo. In Italia, il sostegno pubblico è stato di circa 4 miliardi». Orgoglio e pregiudizio, appunto. A chi urla contro il presunto salvataggio pubblico del Monte dei Paschi di Siena, andrebbero dunque ricordati alcuni fatti. Anzitutto che gli aumenti di capitale che la banca senese ha sostenuto nel corso degli anni della crisi sono stati a carico degli azionisti, al punto che è cambiata la proprietà della banca. Poi, che l’intervento pubblico di massima urgenza, l’emissione dei famosi Tremonti bond e dei successivi Monti bond, obbligazioni emesse dalla banca e sottoscritte dal governo italiano, sono stati dei prestiti onerosi, che alle pubbliche casse hanno reso fino al 9 per cento. Di questi tempi, circa 4 volte quanto paga d’interesse un Btp decennale emesso dal Tesoro italiano. Diversa la realtà in altri paesi europei. Come ha evidenziato la Banca d’Italia, tra le grandi economie del Vecchio continente solo la Francia ha messo sul piatto un intervento pubblico più contenuto che l’Italia.
Tempestività
Peraltro, il governo francese è stato il primo a intervenire dopo quello britannico. Era giovedì 11 dicembre 2008 quando Parigi aprì le casse e riversò in un colpo solo 17,1 miliardi nelle banche di casa. Sottoscrisse azioni di Bnp Paribas per 7,7 miliardi, azioni e titoli subordinati di Société Générale per 3,4 miliardi, subordinati del Crédit Agricole per 3 miliardi e azioni del gruppo Bpce per altri 3 miliardi. Un fiume di denaro che bloccò la speculazione e diede fiato al sistema e che successivamente rientrò nelle casse pubbliche.
Madrid europea
La Spagna si mosse astutamente. Alla grave crisi del credito ha risposto coinvolgendo l’Unione europea, che ha spedito a Madrid prestiti per 40 miliardi. Questi sono serviti soprattutto per colmare i buchi creati da quattro banche: Bankia (18 miliardi), Catalunya Bank (9) Ncg Banco (5,5) e il Banco di Valencia (4,5), tutte nazionalizzate tramite il Frob, il fondo di ristrutturazione, a cui successivamente Madrid ha affiancato Sareb, la bad bank di sistema. Ma tutto ciò è niente rispetto a quanto è successo a Berlino, dove Frau Merkel non ha esitato tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009 a pagare 33,2 miliardi di euro per garantire la sopravvivenza della sola Commerzbank, sottoscrivendo azioni e obbligazioni, per poi dedicarsi al finanziamento delle Landesbank, le banche di territorio, vero buco nero del sistema creditizio tedesco. E la Gran Bretagna? La grande crisi, scoppiata a Miami nell’estate del 2007 e poi propagatasi a New York, è sbarcata in Europa in un porto inglese. Il paziente zero fu Northern Rock, una banca poi nazionalizzata. L’allarme fu dato il 20 settembre 2007. Le «cure» durarono fino al gennaio 2010, la spesa per le casse di Downing Street fu di 51,1 miliardi di sterline, circa 64,5 miliardi di euro al cambio attuale. Bazzecole rispetto a quanto è costato il salvataggio di Royal Bank of Scotland (Rbs): 424,3 miliardi di sterline (536 miliardi di euro), o del Lloyds Banking group, 450,2 miliardi di sterline (568). Cifre astronomiche e non paragonabili con il costo dell’intervento pubblico in Italia, neppure considerando che poi, parte di questi interventi, sono rientrati, vista che la sintesi attuale è quella dei dati Eurostat evidenziati dalla Banca d’Italia.