Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  dicembre 01 Lunedì calendario

La Svezia scricchiola e il mito del grande nord crolla. La disoccupazione sale, la crisi dell’eurozona minaccia l’export e la popolazione invecchia: «Eravamo la terra della tolleranza e del pensiero solidale. Poi miti e valori comuni sono stati aggrediti alla radice. Crescono nuove generazioni più egoiste, prima che al prossimo pensano al portafoglio, non riusciamo a tramandare i valori»

Gentile e infaticabile, Carl Smitterberg è un quarantenne poliglotta e sportivo, elegante casual, giacca blu di buon taglio e camicia button down: sembra un giovane manager di un’industria d’eccellenza, o di una banca scandinava approdata a Canary Wharf a Londra. Invece no, percorre veloce la città tutto il giorno in Tunnelbana, lo splendido, profondissimo métro-rifugio antiatomico, per occuparsi degli anziani e dei disabili ai quali porta a casa gli allarmi da polso collegati alla centrale di soccorso. «Abbiamo molti fondi, ma oltre 110mila dei 900 mila abitanti di Stoccolma sono over 65, trend in aumento», spiega. Li Jansson, brava e giovane esperta dell’istituto Almega, è in prima linea per l’integrazione dei migranti, «dobbiamo far di più per loro o i populisti cresceranno», mi dice. Kristina Persson, nel nuovo governo di sinistra, è la ministro del Futuro e riprogetta il sistemapaese, non ha dubbi: «Il modello nordico deve cambiare per restare sostenibile, organizzarsi meglio, creare, produrre, integrare di più e dare più lavoro, altrimenti i populisti diverranno una sfida davvero pericolosa». Tempo di riflessioni quiete-amare, a Stoccolma sorridente e gentile, affollata per lo shopping, profumata di candele e ghirlande dell’Avvento, accesa da decorazioni, mercatini di Natale, abeti addobbati: persino il Kungliga Slotten, il Palazzo reale dove presto regnerà l’amata Viktoria, è illuminato a festa. «Il Nord è ancora il paradiso del mondo», dice lo scrittore critico danese Jussi Adler- Olsen, «ma sta cambiando, diventa meno solidale e meno liberal, e noi intellettuali cominciamo a temere di svegliarci un giorno e non trovarlo più, scoprirci all’improvviso in un paradiso perduto, troppo tardi per un attimo».Andiamo cauti con gli allarmi: non basta ancora qualche sommossa etnica nelle vecchie metropoli industriali del Sud, né il volo degli Sveriges Demokraterna, i nuovi populisti antieuropei di Jimmy Akesson, a far cadere il grande Nord nell’abisso della Francia tra declino industriale e Front National primo partito, o nelle nostre rabbie urbane tra razzismo e povertà giovanile dilagante. Qui nella Svezia potenza- leader regionale, in Finlandia, Danimarca i valori costitutivi dei leader-mito di ieri, da Olof Palme a Urho Kekkonen, vivono ancora, li tocchi con mano. L’export industriale e high-tech d’eccellenza vola, produce la metà del Pil. Le start-up crescono come funghi, anche per i fondi governativi alla musica giovanile. Idee-chiave del mondo come Skype o Spotify sono nate qui. Corruzione e furbetti sono così rari che persino il controllo biglietti sulla Tunnelbana o sul treno da 210 orari che dal lontanissimo Arlanda, aeroporto migliore di Monaco o Zurigo, ti porta in centro in venti minuti, sono eccezione. E anche le più povere ragazze- madri fuggite dalla Siria o dalla Somalia sentono che il welfare non le lascia sole.«Ma guai a cullarsi sugli allori, la disoccupazione all’8 per cento è già troppo alta. Dobbiamo sbrigarci a ripensare il modello nordico, renderlo sostenibile: più organizzazione e meno burocrazia, più produttività e più integrazione, e più attenzione alle nuove disuguaglianze», confessa la ministro Persson nel suo studio a palazzo Rosenbad, il neoclassico edificio governativo che solo l’acqua del golfo e un ponte separano dalla Corte. «Il mondo corre, non ci aspetta, la mia generazione di baby-boomers invecchia, presto diverremo un costo». E non è finita: «Siamo in pochi, ci servono più migranti anche per produrre e per finanziare il welfare». Per fortuna, dice reduce da un colloquio con l’ad di Volvo, tra le parti sociali resta viva la concertazione, cuore del “nordic model”. «Insieme ai valori di uguaglianza, priorità al prossimo, fiducia nelle istituzioni». Può non bastare: «Il domani dell’eurozona cui vendiamo il 70 per cento dell’export appare cupo, molto dipende dalla Germania, certo oggi da noi nessun sì all’entrata nell’euro raccoglierebbe la maggioranza». E appena a Est, jet Gripen e navi invisibili cacciano di continuo bombardieri e U-Boot spia di Putin, ecco l’altro incubo: neutralità in forse.Problemi simili in Finlandia, dice il governatore della Suomen Pankki, Erkki Liikanen, amico critico di Mario Draghi, dal suo studio dove i trittici di Akseli Gallen- Kallela, il pittore nazionale, ritraggono la leggiadra Aino e gli altri eroi del Kalevala. «In certe aree noi nordici andiamo benissimo, in altre siamo sotto sfida: da noi la base industriale si è fatta più piccola, col calo mondiale dell’industria elettronica e del consumo di carta. E calano le nascite, la gente dovrebbe lavorare di più, accettare riforme delle pensioni. Se la crescita rallenta e la popolazione invecchia, finanziare un ampio welfare non è più come in passato. La questione chiave è qual è la parte essenziale del welfare». Il consenso bipartisan, dice Liikanen, è non rinnegare valori costitutivi: eguaglianza, apertura al mondo, integrazione. E sistemi scolastici decisi a dare chances a tutti. Ma ogni riforma fa male, ammonisce citando Machiavelli: «Chi ha paura di perdere griderà forte, chi pensa di poter vincere starà zitto, è la sfida permanente dei politici, anche qui a Nord».L’eguaglianza paga, rende competitivi, rammenta l’attiva premier laburista danese Helle Thorning-Schmidt. «Belle parole non bastano contro i populisti», replica Li Jansson. «L’ex premier Reinfeldt prima privatizzò i servizi sociali, un disastro, poi chiese agli elettori di “aprire i cuori” ai migranti, ma senza spiegare come. In provincia è diverso da Stoccolma, la concorrenza per lavoro e servizi crea tensioni, e dalla Siria ci arrivano medici e ingegneri di prim’ordine che non sappiamo integrare», spiega. Ogni strategia appare rischiosa: «Il nuovo governo di sinistra aumenta le tasse, le imprese sono in allarme per il mercato del lavoro». Dati freddi, ma feriscono l’anima. «Negli anni Settanta commettemmo l’errore di pensare che era meglio statalizzare tutto», nota il politologo e giornalista investigativo Henrik Berggren, «oggi l’errore contrario. Non ricordiamo che nel 1989 crollò un sistema dove lo Stato aveva divorato l’economia di mercato, oggi rischiamo un processo opposto».L’addio al Grande Nord solidale, ecco l’incubo di intellettuali, politici e gente comune, qui a Stoccolma, Helsinki, Copenaghen accese dal prossimo Natale. «Eravamo da decenni società impregnate di valori costitutivi socialdemocratici, senza che nessuno dovesse dichiararsi socialdemocratico», nota triste Jussi Adler Olsen. «Eravamo la terra della tolleranza e del pensiero solidale: prima il prossimo di te stesso. Poi miti e valori comuni sono stati aggrediti alla radice. Crescono nuove generazioni più egoiste, prima che al prossimo pensano al portafoglio, non riusciamo a tramandare i valori. Speriamo nella nuova Svezia di sinistra, viviamo ancora in un paradiso, ma che possiamo perdere», confessa. Sommesse e civili, ecco le paure nell’animo collettivo del Grande Nord, finora dal cuore solidale caldo anche nel gelo. Le cogli con le sfide populiste, con il terrore di un crack dell’eurozona, e col rombo dei Gripen che decollando su allarme a ogni Tupolev atomico avvistato rompono il silenzio della notte.