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 2014  dicembre 01 Lunedì calendario

«Io sono innocente, non mi stancherò mai di ripeterlo. Condannare me è stata la soluzione più facile per tutti. Ho anche pensato di uccidermi, perché così smettevo di sentire questo enorme dolore, ma i miei non avrebbero voluto. Loro avrebbero voluto per me una vita felice. Ora devo andare avanti per dimostrare che la verità è un’altra». Parla Gabriele Aral, da dodici anni in carcere per l’omicidio dei genitori

Tre gradi di giudizio, tre condanne. Difficile immaginare che magistrati e investigatori possano aver deciso di complottare in massa contro Aral Gabriele, il giovane che il 22 marzo del 2002 è finito nell’imbuto di indagini a senso unico, ed è stato considerato l’assassino dei suoi genitori, Maria Elena e Gaspare. Eppure a guardarlo negli occhi mentre racconta del suo dolore senza sosta, della sua vita non vita, chiuso dentro le mura del carcere di Volterra – un castello magnifico e cupo che guarda dall’alto il bel borgo della Toscana – i dubbi di cui parla appaiono concreti. Dovrà scontare 28 anni di pena, dodici sono già passati, e da un anno uno spiraglio di vita normale gli si è aperto grazie a benefici di legge ottenuti per buona condotta: esce la mattina per lavorare come giardiniere in Comune. Rientra nel primo pomeriggio, e studia, scrive poesie, e legge le migliaia di pagine di atti della vecchia inchiesta, per trovare lacune, buchi neri, errori. Qualcuno ha preso a cuore la sua storia: sono gli avvocati Nadia Saccoccio e Benedetto Lauria della ong Progetto Innocenti, hanno studiato le carte e ora si preparano a chiedere la revisione del processo, partendo proprio da quelle prove non valutate che, a loro dire, avrebbero potuto cambiare l’esito della vicenda.
Aral, lei non ha mai confessato, eppure i giudici l’hanno pensata diversamente.
«Ci sono stati tre gradi di giudizio, è vero, ma in realtà è stato un solo processo, sempre lo stesso. Non sono mai stato veramente difeso in aula, e non ho mai potuto dimostrare la mia innocenza. Gli avvocati, quando capivano che non potevo pagarli, mi abbandonavano».
È stato definito un figlio di famiglia, un giovane viziato che non ha saputo affrontare le bugie dette ai genitori su esami all’università mai sostenuti.
«Non potrò mai smettere di sentirmi colpevole per non essere stato sincero su come stava la mia situazione universitaria. Ma ho rimandato perché mia madre in quel periodo non stava bene, mio padre aveva problemi economici. Dopo la loro morte, sono arrivati i pm e hanno detto che avevo taciuto perché non volevo farli soffrire, e che per questo li avevo uccisi. Ma come si può pensare a una cosa del genere? La nostra era una bellissima dinamica familiare. I miei genitori mi hanno sempre voluto un bene incredibile».
Davanti a tanta gente che l’ha creduta colpevole, non c’è mai stato un momento in cui ha dubitato di se stesso?
«Io sono innocente, non mi stancherò mai di ripeterlo. Condannare me è stata la soluzione più facile per tutti. Persino gli agenti penitenziari che, nelle ore successive all’arresto, mi controllavano a vista per paura che mi facessi del male, cercavano di convincermi. Mi dicevano:l’hai fatto tu, ma ora non te lo ricordi. E io non riuscivo ad arrabbiarmi, perché sono una persona che tende a soffrire. Il dolore è il sentimento che mi ha accompagnato in tutti questi anni. Ho anche pensato di uccidermi, perché così smettevo di sentire questo enorme dolore, ma i miei genitori non avrebbero voluto. Loro avrebbero voluto per me una vita felice. Mi sono laureato con lode in Scienze giuridiche, e ora devo andare avanti per dimostrare che la verità è un’altra».
Su cosa baserete la vostra richiesta di revisione?
«Troppe cose non sono state valutate: a cominciare da alcuni rapporti di lavoro che mio padre ha avuto con la malavita. Ho saputo solo dopo che era entrato in contatto con personaggi della Banda della Magliana, aveva problemi economici, e ha avuto bisogno degli usurai. Io sono stato condannato per indizi molto labili».
Aral non dice per rispetto, che gli investigatori hanno trovato nelle tasche del padre Gabriele un profilattico, forse un’altra traccia da cui ripartire.
Immagina una vita fuori dal carcere?
Sorride. «Uscire da qui? Ora no, non ci penso. Conta solo rivedere il processo. In questi anni ho conosciuto tante persone che hanno preso a cuore la mia vicenda, non sono più solo».
Un’ultima domanda, la più delicata: perché quando ha trovato i corpi dei suoi genitori chiusi nei sacchi, non ha tentato di strappare la plastica? Li ha lasciati lì ed è fuggito.
È l’unico momento in cui Aral muove le mani. Si tocca la pelle, quasi come se sentisse la plastica di quei sacchi schiacciata sul viso, e la volesse strappare. «Mi sono inginocchiato davanti a quei corpi. Ho guardato, cercavo di capire, poi attraverso la plastica nera del sacco ho visto mia madre. La pelle era arancione, ho capito che era morta, che erano tutti e due morti. Ho avuto dei conati di vomito, sono fuggito fuori dalla stanza e non ho capito più niente».