La Stampa, 28 novembre 2014
Joe Bastianich, il cattivo di MasterChef, mette da parte il cibo per dedicarsi alla musica: «Avrò più tempo per provare con la mia band, tutti di Eataly a New York. E nella nuova edizione di MasterChef Italia mi vedrete più paterno»
A 46 anni Joe Bastianich, il giudice cattivo di MasterChef, dà una sterzata: niente più edizione americana del programma a cui partecipava dal 2010, niente più allenamenti ossessivi per il torneo Iron Man, ovvero il triathlon ai massimi livelli. Gli si liberano un bel po’ di tempo e di energie, che ha voglia di dedicare, oltre che alla famiglia, «alla musica, suonata e composta, a un nuovo libro, spero anche a un film sulla tragedia dei profughi istriani. Il cibo, ora, è meno importante». Le sue esistenze precedenti sono dunque consegnate al libro in uscita per Utet, Giuseppino, scritto con Sara Porro, in cui racconta come da nipote di istriani emigrati a New York sia diventato giovane broker di Wall Street, e poi gestore di ristoranti, e poi star televisiva, e poi socio di Eataly, e poi, e poi.
Joe, come mai dice addio a MasterChef Usa?
«Niente rancori: sono stati dei gran begli anni ma era ora smettere. Nella vita è bello cambiare».
Il suo contraltare e collega di set Gordon Ramsay si sentirà perso, vista la sana competitività che si era instaurata fra di voi. Tanto che aveva voluto concorrere anche lui all’Iron Man.
«Ma non ce l’abbiamo fatta a verificare chi sarebbe stato il migliore, perché l’estate scorsa, come rievoco nel libro, sono caduto dalla bicicletta e mi sono rotto la clavicola e due costole. Ora va meglio, però in bici non ci sono più salito. Anche se alla Maratona di New York non ho rinunciato».
L’incidente, la voglia di dedicarsi ad altro. Joe, non è che per la 4aedizione di MasterChef Italia, in onda su Sky Uno dal 14 dicembre, rischia di diventarci troppo buono?
«Più buono l’ha detto lei, io preferirei più paterno, più simile al Joe di tutti i giorni. Uno degli obbiettivi che volevo raggiungere nel programma era quello di una mia evoluzione: direi che ci sto riuscendo».
E il format in sé dove sta andando?
«Sarà sempre più narrazione: non siamo noi giudici l’elemento che conta, sono i racconti dei concorrenti, le loro storie, che emergeranno nella loro totalità. Non ci sarà più il caso dell’isolata Rachida contro il gruppo: ciascuno avrà il suo spazio».
Da grande farà il musicista?
«Di certo avrò più tempo per provare con i Ramps, la mia band, tutta fatta di gente che lavora da Eataly a New York. Il 15 dicembre suoniamo qui a Milano, alla Salumeria della Musica, per una serata che sarà simile a un cabaret americano, molto parlata e con un po’ di teatro. C’è qualcosa di quasi pronto anche per la tivù, un programma tutto nuovo e che con la cucina non c’entra, di cui presto verranno rivelati i particolari».
D’estate, mentre registrate il programma, vivete da reclusi negli studi di via Mecenate. Ci racconta come funziona?
«Si lavora, si lavora, si lavora e poi basta. La tensione cresce e tu devi rimanere concentrato».
Ed è allora che l’ego dei giudici esplode. Si favoleggia di gran scenate dietro le quinte.
«Dodici ore a brasare lì dentro, ad aria condizionata spenta perché il rumore disturberebbe le riprese. Non siamo santi».
A proposito di frizioni: nel libro non la manda a dire a Carlin Petrini, che ha fortemente criticato il concetto del programma ma che, dice lei, si è fatto pubblicità ospitando a Pollenzo una delle prove in esterna.
«Stimo Petrini perché è forse l’uomo che al mondo ha fatto di più per il cibo, ma confermo quello che ho scritto».
Vi siete sentiti dopo la polemica, magari con la mediazione di Oscar Farinetti?
«No. Ma se vuole lo aspetto con un bicchiere di barolo».
Quanto hanno contato le esperienze precedenti, come quella da lupo di Wall Street, nella sua attuale carriera?
«Quanto vi piace questa storia di Wall Street! Eppure sono stati soltanto otto mesi. Ma lo capisco: per voi italiani New York è una storia d’amore, i ragazzi italiani che vengono a lavorare a Manhattan fanno un sacco di sacrifici ma si divertono pure come pazzi. Li vedo tutti i giorni, ne abbiamo un gran bisogno e cerchiamo di aiutarli e di ospitarli».
Che cosa le manca dell’America quando è in Italia?
«La puntualità. Le sembra possibile che certi produttori tivù, oggi, mi abbiano fatto aspettare per un’ora?».