La Stampa, 28 novembre 2014
Mario Draghi si chiama fuori dalla corsa al Quirinale, vuole restare a Francoforte. Difficile dire se il forfeit rappresenti per Matteo Renzi un problema in più o uno in meno. Certamente, da 48 ore, dopo il colloquio con Napolitano nel corso del quale il Capo dello Stato ha confermato la sua intenzione di lasciare nelle prime settimane del 2015, il presidente del Consiglio ha preso atto che è giunta l’ora di affrontare la questione
Il più autorevole candidato alla successione di Giorgio Napolitano non sarà della partita. Nei giorni scorsi, attraverso i canali più adatti per una personalità di quella influenza, il presidente della Bce Mario Draghi ha fatto sapere di voler restare a Francoforte, chiedendo di tenerlo fuori dai pourparler che precederanno l’inizio delle votazioni per il Quirinale. Il mandato di Draghi scade il 31 ottobre 2019 e il presidente della Bce intende onorarlo sino in fondo, non soltanto perché in questo modo continuerà a restare l’uomo più influente d’Europa. Difficile dire se l’importante forfeit di Draghi rappresenti per Matteo Renzi un problema in più o uno in meno. Certamente, da 48 ore, dopo l’intenso colloquio con Giorgio Napolitano nel corso del quale il Capo dello Stato ha confermato la sua intenzione di lasciare nelle prime settimane del 2015, il presidente del Consiglio ha preso atto che è giunta l’ora di affrontare la questione per lui più complessa.
Questione storicamente complessa, perché da quando si elegge un Presidente, quasi tutti i capi-partito non sono riusciti a portare al Quirinale i propri candidati preferiti. Ma questione complessa anche dal punto di vista della contingenza: Renzi sa di dover fronteggiare l’ostilità dei tanti “grandi elettori” che, forti del voto segreto, punteranno ad un Quirinale il più possibile indipendente da palazzo Chigi. Renzi invece, come ha spiegato informalmente ai suoi, punta ad un Capo dello Stato che, davanti al bivio di uno scioglimento anticipato delle Camere, ascolti nel dovuto conto le sue opinioni. Quelle poche volte che ha parlato in pubblico, Renzi si è espresso con chiarezza: «Per quell’incarico serve una figura istituzionale, con un profilo che non si presta ad essere discusso sui social network». Un metter le mani avanti davanti a candidati dal profilo sbiadito? Una cosa sola è certa: a circa due mesi dall’inizio delle votazioni per il nuovo Capo dello Stato, si è almeno definito il campo di gioco nel quale i contendenti disputeranno la partita. Renzi punta su un outsider, il più glamour possibile, meglio se sensibile e riconoscente a palazzo Chigi, mentre la minoranza del Pd ha scelto una posizione abile, almeno sulla carta, in grado di condizionare il loro “nemico”. Dice Alfredo D’Attorre: «Mi auguro che Renzi non concordi con Berlusconi un candidato privo di autonomia e autorevolezza. Il Presidente della Repubblica deve essere il garante per il Paese, non per il governo Renzi».
Certo, il premier terrà coperte le sue carte fino all’ultimo, come nella vicenda Gentiloni-Esteri, nella quale ha dimostrato di essere abilissimo nelle manovre di palazzo, nella capacità di esporre una carta, farla bruciare, tenendo coperta quella vincente. Ma partendo dall’identikit da lui stesso tracciato – un profilo istituzionale, impermeabile ai mugugni della rete – i primi tre nomi in pole position sono quelli di Pier Carlo Padoan, Carlo Cantone e Franco Bassanini. Il ministro dell’Economia, che Renzi chiama stabilmente «Pier Carlo», in nove mesi ha dimostrato di saper soffocare con sapienza i dissensi dal premier, dal quale non si è mai differenziato in modo apprezzabile. E, per quanto non sia Carlo Azeglio Ciampi, Padoan è conosciuto negli ambienti internazionali che contano. Appeal diverso (ma anche una personalità forte) per il presidente dell’Autorità anti-corruzione Raffaele Cantone, del quale l’Espresso ha ricostruito di recente il buon rapporto personale con il vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio, uno dei capofila dei Cinque Stelle, possessori di un pacchetto di 141 grandi elettori. Nella casella degli autorevoli, una volta auto-escluso Draghi, resta in campo Romano Prodi. Stavolta Grillo saprà lanciarlo all’ultimo momento utile per mettere in imbarazzo Renzi? E Berlusconi ripeterà che lui è pronto a lasciare l’Italia se al Quirinale andasse il Professore? Nel frattempo Prodi, chiamato a testimoniare al processo che vede imputato Berlusconi a Napoli per la compravendita del senatore De Gregorio, non si è costituito parte civile e ha messo a verbale che le manovre per il passaggio di parlamentari al centrodestra durante il suo governo erano «chiacchiere quotidiane».