il Giornale, 28 novembre 2014
Il nuovo romanzo di ’Ala al-Aswani racconta dell’Egitto nella prima metà del ’900, quando era un Paese a piramide e in cima c’era Londra. Pascià e impiegati, diplomatici e servitori in una società fra tradizione araba e dominio europeo
All’indomani della Seconda guerra mondiale, l’Egitto si ritrova davanti al problema che da più di un secolo cerca di eludere. È un Paese indipendente o a sovranità limitata? È la più importante nazione araba, per dimensioni, popolazione, storia, o la inguardabile caricatura di un passato tanto splendido quanto irripetibile? Per gli inglesi che non si rassegnano allo scomparire di un impero, più dell’India ormai perduta l’Egitto rimanda all’ultima e in fondo, in quel contesto storico, unica gloria bellica di cui andare fieri, il deserto e le sue vittorie, e al rassicurante cliché della razza dei gentlemen orgogliosamente chiamata a sopportare il fardello della propria superiorità.
Da Alessandria al Cairo, alberghi, club, circoli, trofei e tornei sportivi, parties e serate di gala concorrono a disegnare l’esotico arabesco di un dominio in cui una minoranza illuminata governa di fatto una maggioranza abbrutita e incolta, rassegnata persino nei suoi sussulti di cieca violenza. Il plurisecolare retaggio ottomano, con il suo combinato disposto di dispotismo, corruzione, inefficienza e indolenza ha generato un terreno fertile per aristocrazie volitive e rapaci e Londra in fondo non chiede altro che esercitare il ruolo che fu della Sublime Porta di Costantinopoli e dei pascià autoctoni che la sostituirono: governare per interposto mandato. Per questo circonda di attenzioni e suggerimenti, e ordini sotto forma di amichevoli consigli, il monarca egiziano Farouk, un trentenne obeso e voglioso di piaceri, ossessionato dal sesso, dal cibo e dal gioco, per molti versi un anacronistico scherzo della storia. La fine degli imperi coloniali porta con sé l’irrompere dei nazionalismi modernizzatori e pensare di arrestare l’una e gli altri con magheggi diplomatici e autarchie impresentabili è solo una pia e insieme bieca illusione.
Cairo Automobile Club (Feltrinelli, pagg. 488, euro 29, traduzione di Elisabetta Bartuli e Cristina Dozio), di ’Ala al-Aswani, si muove in questo contesto, ma il suo autore, che ha già alle spalle il fortunatissimo Palazzo Yacoubian, è ben attento a non cadere nella trappola di un anticolonialismo di maniera, dove tutto il male è colpa del perfido straniero e tutto il bene è nelle salvifiche capacità del popolo oppresso. Al contrario, nel mettere in scena questo Egitto di pascià, aristocratici, diplomatici e avventurieri di ogni sorta ne racconta gli ultimi sussulti pre-nasseriani andando proprio a scavare nell’altro elemento che gli fa da contrappeso: l’esistenza precaria e rassegnata di un esercito di servitori e impiegati, giovani e vecchi, acculturati e analfabeti, proletari e piccolo borghesi, tutti più o meno accomunati dalla stessa ansia di essere graditi, tutti più o meno convinti che il futuro non stia in loro, ma nella degnazione di chi li comanda. Per farlo, Aswani sceglie il microcosmo del «Cairo Automobile Club», che è sì una creazione degli inglesi e dove gli egiziani per essere ammessi debbono essere cooptati dai soci europei, ma il cui presidente onorario è lo stesso re dell’Egitto e il cui funzionamento è assicurato da dipendenti locali sottoposti al controllo del Kao, il camerlengo del Re, sorta di capo supremo che pratica l’arte della sottomissione come unico strumento di comando.
Così, nell’intreccio di storie che fanno da corona al romanzo, ciò che emerge è proprio la difficoltà con cui una società esausta e piegata, ma anche corrotta, cinica e svogliata, qual è quella egiziana della prima metà del secolo scorso, accoglie i timidi ma insistenti cenni di rivalsa e di orgoglio, il fatalismo di chi ha troppo visto e troppo subito che si scontra con l’attivismo ingenuo e testardo di chi vuole assumere su di sé il proprio destino. E non è un caso che in una stessa famiglia ci sia posto per figli che vogliono studiare e emanciparsi e figli che cercano semplicemente un padrone da cui prendere ordini, padri rovinati dalla mania di grandezza e padri incapaci di andare al di là della pura e semplice sopravvivenza... Sotto questo aspetto, Cairo Automobile Club è uno straordinario spaccato socio-economico e politico che aiuta a comprendere il successivo percorso nazionale egiziano, da Nasser e Sadat a Moubarak, la modernizzazione dei «giovani effendi» in divisa kaki che diventa satrapia in alta uniforme; il ritorno in forza sulla scena della Fratellanza musulmana con il suo richiamo morale e religioso; la confusa «primavera araba» in cui laicismo e fondamentalismo sono prima alleati e poi nemici; la nuova tutela militare a fronte di una democrazia parlamentare che non riesce a trovare un ubi consistam in grado di imporsi.
’Ala al-Aswani è bravissimo nel dipingere un mondo sanguigno, beffardo anche nella sua crudeltà, concentrato di tradizioni e superstizioni che cercano di resistere mentre tutto intorno a loro sta cambiando e dove spesso il familismo è l’unico collante in grado di tenere, ma anch’esso immerso in un clima di sospetto e di diffidenza. Arroganza, miseria, ricatto e risveglio scandiscono le pagine di Cairo Automobile Club, insieme all’ironica maestria con cui l’autore disegna caratteri e stati d’animo e la sgargiante capacità di rendere paesaggi e luoghi, il fascino dolce-amaro di un’Arabia felix anche nella sua infelicità, attonita e colorata, fiabesca persino nella sua prosaicità.