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 2014  novembre 28 Venerdì calendario

Come si può morire per colpa di una pistola giocattolo da 20 dollari. Il video di Cleveland in cui si vede Tamir Rice, 12 anni, ucciso da un poliziotto. L’America si indigna, la famiglia della vittima chiede giustizia

Nel plumbeo silenzio di un video muto in grigio, un bambino e la polizia giocano al game della morte e il bambino perde. Ora possiamo vedere, nella ripresa di una telecamera di sorveglianza, come si può morire per colpa di una pistola giocattolo da 20 dollari.
Guardate bene quella clip di 60 secondi, registrata per caso. Assorbite il senso di solitudine e di noia che trasmette, la vertigine di un vuoto urbano che risucchia un ragazzino solo che si credeva un “gangsta” da telefilm e il proiettile vero del poliziotto che lo riporta alla realtà, solo per ucciderlo. Guardiamolo perché il video che la famiglia di Tamir Rice, la vittima, ha chiesto alla polizia di diffondere per mostrare gli ultimi 60 secondi della vita del loro figlio, racconta molto più dell’ormai consueta tragedia della strage di giovani e giovanissimi uomini neri.
Narra di una giornata qualsiasi di fine novembre, inaspettatamente mite sulla rive dei Grandi Laghi grigi del nord, che scioglie i resti della neve caduta abbondante poche ore prime. Ma non popola quel giardinetto squallido e novembrino ancora troppo fangoso e umido perché le madri portino i più piccoli a giocare e i vecchi vadano a scaldarsi le ossa.
Ci sono, nel vuoto della sequenza, soltanto due attori. Un uomo, probabilmente non più giovane a giudicare dalla sua voce roca e stanca che sentiremo nella chiamata al 911, il centralino per le emergenze, seduto sulle panche nel gazebo centrale. E Tamir, il bambino con la pistola giocattolo comperata in un mercatino per 20 dollari, alla quale, sapremo poi, aveva tolto quel tappino arancione sulla levata, dalla canna, che segnala il suo essere, appunto, un giocattolo e non gli dava street cred, come dice lo slang, la credibilità della strada fra i più grandi. Tra quei due protagonisti, ai quali si aggiungerà una comparsa, una donna che passa in fretta sul marciapiedi e ignora il ragazzino che le brandisce contro il giocattolo, comincia un balletto a distanza che condurrà alla tragedia.
Il vecchio sotto il gazebo nota Tamir, chiama il centralino, con voce stanchissima avverte che c’è qualcuno che agita una cosa che sembra un’arma, che «la gente se la sta facendo addosso» (la «gente» è solo lui) ma che sembra – e lo ripete per due volte – finta. Mentre parla, il bambino continua il proprio balletto, una sorta di danza rituale, macabra, come certamente lui ha visto fare non soltanto in tv o nei video giochi, ma nella realtà del quartiere, da qualche amico più grande, fino alla posa rituale della pistola impugnata a due mani. I due, il vecchio con il telefonino e il bambino con il giocattolo, non si parlano, non riconoscono l’esistenza l’uno dell’altro, vivono due esistenze parallele nella loro opposta solitudine sotto la neve che si scioglie nell’erba e sul gazebo. Lui immobile, l’altro agitato come un folletto con la felpa e il cappellino militare “camouflage”. Vivono nel nulla, come attori di un film di Ingmar Bergman. Soli con le loro paure, le loro fantasie. E con la morte che incombe come un presagio certo.
La recita parallela si interrompe quando l’autopattuglia del CPD, il Cleveland Police Dept, irrompe a tutta birra sul marciapiedi e i destini del vecchio, del bambino e di un poliziotto che mai si erano incrociati prima, si congiungono nella Smith&Wesson – vera – dell’agente Tim Loehman, poco più di un ragazzo anche lui, a 26 anni, con pochi mesi di servizio. Il vecchio che aveva messo in moto il destino, è sparito dal set. Per qualche secondo, dopo avere chiamato con il telefonino qualcuno che chiaramente non risponde perché lo ripone subito, Tamir si siede al suo posto, con la testa abbandonata sul braccio appoggiato al tavolo del gazebo, nella fulminea stanchezza dei bambini. È l’unica figura umana nel campo grandangolo della telecamera fino a quando arriva l’auto che lo scuote e riaccendo il suo spirito infantile e letale. Nel finale, restano Tamir e la bestia, il macchinone nero della polizia, divisi da pochi passi. Il bambino con la pistola inspiegabilmente, se non pensiamo al gioco, non fugge, ma si avvicina baldanzoso alla bestia. Si vede, dalla statura, che è un ragazzino, ma anche i bambini, qui, hanno pistole vere. L’agente Loehman, seduto alla destra del guidatore che è un veterano di 46 anni, Franck Garmback, racconta di avere intimato di gettare quell’arma che lui non sa essere fasulla e di alzare le mani, ma Tamir non lo ascolta.
Sta giocando, ricordate? Non è vita vera, lui è in un film, è in tv, è in un videogame, in un’altra dimensione, poi sa di non essere armato, che cosa mai gli può succedere? L’agente Lehman, per recluta fresca che sia (appena sei mesi nella “Forza”) non può sbagliare: spara un colpo, uno solo, non i dodici, ripeto, dodici, che l’agente Wilson nel Missouri aveva esploso contro Michael Brown. È seduto, spara dal finestrino, per uccidere perché mira al petto. Si capisce che ha paura, il ragazzo poliziotto, perché a quella distanza, se il ragazzino spara, lui non ha scampo, dunque «shoot to kill». Il video, che non è un film, mostra come si muore davvero senza contorsioni e sbracciamenti da attore: Tamir si affloscia di schianto, trapassato al cuore. Game over.