Corriere della Sera, 28 novembre 2014
Le vite parallele di Giovanni Gentile e Palmiro Togliatti. Escono in contemporanea da Bompiani le raccolte degli scritti di due figure legate da significative analogie. Entrambi scelsero di essere organici a un disegno politico, con Mussolini o con Stalin
Può apparire a taluno singolare o addirittura «provocante» che di Giovanni Gentile e di Palmiro Togliatti escano in contemporanea presso Bompiani, nella stessa collana, «Il pensiero occidentale», due ampie sillogi miranti a fornire al lettore una nutrita esemplificazione del loro pensiero (Giovanni Gentile, L’attualismo, introduzione di Emanuele Severino, pp. 1486, e 40; Palmiro Togliatti, La politica nel pensiero e nell’azione, a cura di Michele Ciliberto e Giuseppe Vacca, pp. 2330, e 55). Come si sa, Gentile fu ucciso da un commando dei Gap a Firenze circa alle ore 13 del 15 aprile 1944 e qualche giorno dopo, su «l’Unità» di Napoli, Togliatti, da poco rientrato in patria dall’esilio, ne avallò l’esecuzione capitale con un articolo di estrema durezza, sprezzante nel tono almeno quanto lo erano gli attacchi rivolti a Gentile da Radio Londra (Paolo Treves) e da Giustizia e Libertà (Carlo Dionisotti) subito prima e subito dopo l’attentato. Eppure, ritrovarli l’uno accanto all’altro in questa importante iniziativa editoriale non dovrà ritenersi né casuale né immotivato. Gentile e Togliatti condivisero un punto di vista, o meglio una scelta, che li coinvolse entrambi personalmente in quanto intellettuali organici ad un forte progetto politico. Una scelta, ideale e pratica, che per entrambi risultò decisiva. Non stupisce perciò la dilatazione che entrambi operarono della nozione di «pensatore», richiamandosi l’uno a Mussolini, l’altro a Stalin come a leader intellettuali e politici al tempo stesso.
Nel caso di Gentile si potrebbero citare scritti suoi quali L’essenza del fascismo (1928) o Origini e dottrina del fascismo (1929) nonché il contributo suo alla voce Fascismo ( Dottrina del fascismo ) firmata da Mussolini per l’Enciclopedia Italiana (1932) e pensata da entrambi. Ma si possono ricordare anche scritti, meno originali certo ma intenti ugualmente a chiosare Mussolini come pensatore, di altri coevi cultori di discipline dello «spirito». La sezione filosofica della voce enciclopedica firmata da Mussolini fu infatti riedita e commentata, come «classico» per i Licei, da Emilio Paolo Lamanna ( La dottrina del fascismo. Commento, Le Monnier, 1940) e già prima da Antonino Pagliaro ( Il fascismo. Commento alla dottrina, ed. Universitaria, 1933).
Quanto a Togliatti, che definì alla Camera dei deputati (6 marzo 1953) Stalin «un gigante del pensiero», si può osservare che gli scritti filosofici di Stalin ( Questioni del leninismo ) erano stati da lui tradotti e inclusi tra i «Classici del marxismo» per le Edizioni Rinascita (Roma 1945, collana diretta da Cantimori, Luporini, Donini, Pesenti). Peraltro ancora negli anni Settanta, nella grande Storia del pensiero filosofico e scientifico di Ludovico Geymonat (Garzanti, vol. VI, 1972), un paragrafo viene dedicato al pensiero di Stalin, e anche di Mao Zedong. Nel 1974 un capitolo dell’ I ntroduzione alla sociolinguistica di Marcellesi e Gardin (Larousse, trad. it. 1979) è dedicato a Il marxismo e la linguistica di Stalin.
Croce si mostrava infastidito quando la pubblicistica comunista gli presentava Lenin e Stalin come suoi «colleghi in filosofia», per adoperare una sua ironica espressione. Resta il fatto che, nel Novecento, si è determinata una consapevole rottura degli argini della tradizionale nozione di «pensatore politico». E non è un caso che chi tale rottura ha inverato, in costante sintesi di pensiero e azione, si sia richiamato all’archetipo per eccellenza di tale «rottura degli argini», cioè a Machiavelli: sia Gramsci che Mussolini. Tale rottura comportò che uomini i quali avevano guidato rivoluzioni di durevole effetto venissero, nel vivo dell’azione, percepiti, o avversati, anche come «pensatori». È soprattutto nel fuoco dei grandi rivolgimenti politico-sociali che la identità Theoria / Praxis si manifesta in tutta la sua forza. Croce, pur estraneo al milieu accademico e anzi spregiatore delle sue sclerosi, vedeva in ciò una sorta di «profanazione» del «filosofare». È comunque curioso osservare la disparità dei suoi giudizi. Nel suo diario ( Quando l’Italia era tagliata in due, Laterza, 1948), al 2 dicembre 1943, parla di Mussolini come «uomo di corta intelligenza» e dalla «personalità nulla», mentre di Lenin e di Stalin parla come di «uomini dotati di genio» ( Russia ed Europa, «Città libera», 23 agosto 1945, largamente ripreso dalla stampa inglese).
Si può ben dire dunque che Togliatti e Gentile ci appaiono, anche grazie a queste due nuovissime corpose sillogi, segnati dall’esperienza, da entrambi vissuta in prima persona, che abbiamo voluto definire «rottura degli argini»: accomunati dal convincimento secondo cui filosofare è, a pieno titolo, l’agire politico sorretto dalla consapevolezza di tradurre in atto una concezione del mondo. In quanto essa prende forma e si precisa, e si evolve, nel suo stesso farsi azione concreta. Per questo entrambi respinsero la separatezza del filosofare.
Ma in che misura, nel caso di Togliatti, può parlarsi di un suo pensiero politico? A pieno titolo egli può annoverarsi tra i maggiori «revisionisti», rispetto al marxismo, al pari di un Bernstein e di un Turati. Tale egli fu, nell’azione concreta, mai disgiunta dalla riflessione storico-politica (si pensi al suo uso di Giolitti come metafora), attore e teorico.
Nel solco dei Quaderni di Gramsci, egli pensò la storia d’Italia in quanto strumento del rinnovamento della società italiana. Alla sua linea d’azione e al suo pensiero, al di là della quotidianità e delle scelte contingenti, si adattano le parole di Gentile nella sezione La storia (Storia come storia dello Stato) di Genesi e struttura della società riferite al concetto di «Rivoluzione». Lì Gentile – proprio per chiarire il concetto di «rivoluzione» – spiega la forza delle Costituzioni, delle carte costituzionali, come «mito» indispensabile e da tutelarsi come tale, ma al tempo stesso la loro mutazione costante nel concreto e quotidiano farsi della vita dei popoli: «Scritte sì, ma lette – egli scrive – intese, vissute nella coscienza politica del popolo che viene rinnovandosi».
Nell’Introduzione generale alla silloge, Ciliberto e Vacca riprendono il paragone con Cavour che fu già caro a Giorgio Bocca, narratore intelligente della biografia togliattiana. Ciliberto – credo che quelle parole siano sue – racchiude felicemente la figura di Togliatti in una immagine: quella di «un politico che aveva particolari virtù di statista anche se non riuscì ad esserlo in modo compiuto come, forse, avrebbe potuto».