Corriere della Sera, 28 novembre 2014
Guendalina Salimei, l’architetta che vuole riqualificare le periferie interpretata sul grande schermo da Paola Cortellesi: «A Roma si dice che il Corviale è buono solo a fermare il ponentino. Ma fu progettato negli Anni 70, in un’altra era. Mario Fiorentino non poteva certo immaginare l’uso e l’abuso degli anni a seguire: il vuoto intorno, l’incuria, l’assenza di articolazione sociale»
Va spesso all’estero e non soffre di nostalgia. Quando è a Parigi, Bratislava o Hanoi non le manca l’aria di casa, non compensa annusando foglie di basilico. E a Roma, la sua città, mai è rimasta per strada perché due balordi le hanno rubato il motorino. Ha talento come Serena, la giovane architetta di Scusate se esisto, l’ultimo film-commedia di Riccardo Milani, ma a differenza di lei, anche negli anni degli esordi, non è mai stata così spiantata. «La cameriera per pagarmi l’affitto non l’ho mai fatta», dice. Guendalina Salimei è l’ultima stella, in ordine di tempo, dell’architettura italiana. Il Corriere di Roma le ha appena dedicato un editoriale accostandola a Zaha Hadid. Già sei anni fa, Luigi Prestinenza Puglisi la definì «punta di diamante» delle donne progettiste. Ora la gloria mediatica grazie a Paola Cortellesi, che ha portato la sua storia (professionale) sullo schermo.
Anche se ha vinto concorsi in mezzo mondo e ha progettato una nuova Venezia vietnamita nella baia di Holong, Salimei non si atteggia ad archistar. Si limita ad apprezzarne alcune come Steven Holl, Rem Koolhaas ed Elia Torres. Insegna alla Sapienza e parla convinta di architettura «partecipata», periferie da risanare, progettazione ecosostenibile: parola, ammette «che vuol dire tutto e niente». Per lei, comunque, è sinonimo di materiali locali, soluzioni low-tech e basso consumo energetico. Da quando il film è nelle sale, non ha pace. Amici, colleghi: tutti a complimentarsi. Sanno che il progetto di cui si parla, la ristrutturazione del Corviale, la grande muraglia romana, è suo ed è reale.
Allora, com’è finita in quel film?
«Mi chiama il regista e mi racconta di una commedia con un’architetta protagonista. Mi dice che ha bisogno di me. Di me? E lui: incontriamoci».
E la storia del Corviale?
«Milani e Cortellesi sapevano tutto del mio progetto: che era già stato selezionato, e che lo avevo chiamato “Il chilometro verde”, perché avevo immaginato un giardino pensile. Volevano conoscere i dettagli, il prima, il come, il perché».
Il film le è piaciuto?
«Molto, fa ridere e pensare».
Sorpresa dall’attualità della storia? Si parla di una periferia simbolo proprio mentre quelle reali si infiammano.
«Il mistero, semmai, è come ci si possa essere dimenticati delle periferie. Noi che le frequentiamo, sapevamo. Renzo Piano ci sta lavorando con i suoi giovani architetti e siamo in attesa dei risultati della sua sperimentazione».
A un certo punto è sembrato che l’Italia avesse una sola periferia: Scampia.
«È vero, poi, dopo le rivolte negli Usa e prima ancora in Francia, la cronaca ha scoperto le periferie di Milano, di Roma, di Torino. Tutte molto simili».
Perché le periferie italiane sono così brutte?
«Non sono più brutte delle altre. È vero, invece, che le nostre città sono bellissime, al Nord come al Sud; e che i nostri centri storici e le nostre piazze sono rari condensati di storia e cultura. Al confronto, la periferia ci perde, è ovvio. Qui il Pantheon, lì il Corviale. Qui i decumani napoletani, lì le “vele” di Secondigliano. E su!».
Perché, senza Pantheon o decumani cosa cambierebbe?
«A Roma si dice che il Corviale è buono solo a fermare il ponentino. Ma fu progettato negli Anni 70, in un’altra era. Mario Fiorentino non poteva certo immaginare l’uso e l’abuso degli anni a seguire: il vuoto intorno, l’incuria, l’assenza di articolazione sociale».
Quando le periferie cominciano a imbruttire?
«Quando diventano monofunzionali, buone solo per andarci a dormire. E, più di recente, quando le città cominciano a scaricare qui il peso dell’immigrazione e le conseguenze della cattiva integrazione».
Abbattere o recuperare?
«Recuperare. Noi italiani sappiamo farlo, ma un certo punto abbiamo smesso. I sindaci hanno pensato ad altro».
Recuperare anche se costa di più?
«Non costa di più. So di cosa parlo».
Lei è ottimista?
«Sì, ma a tre condizioni».
La prima.
«Le nostre periferie non sono connesse. Bisogna renderle accessibili».
Ma la connessione, si obietta, talvolta “periferizza” i centri storici.
«Senza, c’è il conflitto. L’isolamento crea insicurezza sia in periferia sia in centro».
La seconda condizione.
«La periferia ha bisogno di spazi di relazione, perché non c’è solo l’isolamento dei luoghi, c’è anche quello delle persone. E quello che ho cercato di fare al Corviale. Bisognerebbe fare come la Cortellesi nel film: ascoltare chi in periferia ci vive, sedersi allo stesso tavolo».
La terza.
«Farla finita con la monofunzionalità. Bisogna portare in periferia parti vive della città. Le università, tanto per cominciare. Ammiro molto gli olandesi: devono vedersela col mare incombente, eppure recuperano l’irrecuperabile».
Vedremo davvero il chilometro verde?
«Pare proprio di sì».