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 2014  novembre 28 Venerdì calendario

Dopo lo scandalo LuxLeaks il presidente della Commissione europea Juncker si difende attaccando: «Non sono un burocrate. Avrei potuto sanzionare Italia e Francia ma stanno facendo le riforme. Ho preferito ascoltare, come deve fare un politico, e loro hanno preso impegni precisi e circostanziati con noi»

«Hanno perfino scritto che il mio incontro con Renzi, a margine del vertice G20 di Brisbane, era andato male. E invece è stato proprio l’opposto: è andato benissimo. Se sei presidente della Commissione europea, devi saper ascoltare i Paesi e i loro governi. Devi capire che cosa sta succedendo anche nella politica interna di ciascuno stato membro. Ho fatto la scelta di non sanzionare. Sarebbe stato facile punire i Paesi che non rispettano le regole del Patto: bastava applicare le procedure previste. Ma io ho scelto di lasciarli parlare. E di ascoltare».
Nella sua prima intervista da presidente della Commissione, concessa a un gruppo di quotidiani europei, Jean-Claude Juncker illustra la nuova filosofia con cui intende guidare la Ue. E spiega perché, quando oggi la Commissione presenterà i risultati degli esami dei bilanci dei Paesi membri, nessuno dei sette che pure violano le regole del Patto, tra cui la Francia, la Spagna e l’Italia, verrà sanzionato.
«La nostra sarà una analisi approfondita e per nulla compiacente – spiega – Per alcuni Paesi saranno necessari sforzi supplementari. Ma un conto è dire chiaramente come e perché non si rispettano gli impegni del Patto. Un altro è punire con sanzioni e procedure. Del resto da Italia, Francia e Belgio abbiamo ricevuto lettere con impegni precisi e circostanziati».
Non le sembra che sia una inversione di rotta radicale rispetto al passato?
«Non ci stiamo assolutamente allontanando dalla strada del risanamento dei conti pubblici, se è questo che pensate. Per due volte negli ultimi mesi il Consiglio europeo ha detto chiaro che non si cambiano le regole della disciplina fiscale. Se qualcuno continua a chiedere di cambiare le regole, è fuori dalla realtà. Ma, secondo me, in passato abbiamo sottovalutato l’importanza della competitività. Per migliorare la competitività e la capacità di crescita, le riforme sono essenziali. E nei prossimi mesi sia l’Italia sia la Francia porteranno a termine riforme importanti in questo senso».
E lei si fida, a differenza di quanto accadeva con la Commissione Barroso?
«La differenza con il passato è che questa volta non siamo stati noi a dettare a Francia, Italia e Belgio che cosa fare. Sono stati loro a decidere le riforme che intendevano attuare e a comunicarcele. Io ho solo detto che non volevo indicazioni generiche, ma un calendario chiaro che comprendesse sia le proposte del governo, sia la tabella di marcia della loro approvazione attraverso l’iter parlamentare».
E questo le basta per sospendere le sanzioni?
«Nel nostro rapporto faremo una valutazione molto chiara sullo stato dei conti pubblici. Ma la Commissione è un organo politico, non burocratico, che prende decisioni politiche. Anche per questo motivo ho chiesto al vicepresidente Dombrovskis e al commissario Moscovici di non tenere una conferenza stampa in occasione della presentazione delle prossime previsioni economiche. E loro hanno accettato».
Perché questa richiesta?
«Ma perché le previsioni economiche sono il frutto del lavoro di uno staff tecnico, che elenca cifre e percentuali che si commentano da sole. Se vogliamo che la Commissione sia davvero un organo più politico, non dobbiamo dare nessun endorsement a questo tipo di analisi tecnica».
Presidente, molti economisti si dicono delusi dalla portata del piano di investimenti che ha presentato al Parlamento europeo. Non è che lei stesso sperava di avere a disposizione più risorse dei 21 miliardi rastrellati tra Commissione e Banca europea degli investimenti? Non è che sperava di poter contare sui contributi degli stati membri?
«Abbiamo preso i soldi che erano disponibili. L’importante era far presto, mandare subito un segnale. Se avessimo chiesto più fondi dal bilancio Ue, avremmo dovuto avviare una procedura di modifica dei trattati. Quanto ai contributi nazionali, dopo una serie di incontri e colloqui sono giunto alla conclusione che era inutile perdere tempo ed energie a discutere con i ministri delle Finanze per ottenere da loro un impegno preventivo».
Ma adesso conta sul fatto che questi contributi nazionali arriveranno?
«Dalle prime reazioni che ho visto, mi sembra che Angela Merkel sia soddisfatta, ed ho appena ricevuto una telefonata dal vice-cancelliere tedesco per dirmi che la Germania contribuirà. Del resto questo progetto ha ricevuto sia l’appoggio del Consiglio europeo, sia quello del G20».
Intanto però non è passato neppure un mese da quando lei ha preso la guida della Commissione e già ha dovuto affrontare una prima mozione di sfiducia in Parlamento per l’affare “Luxleaks”...
«In effetti, questo è un record»
Non è che c’è qualcosa che non va?
«Ma pensi a quante mozioni di sfiducia ha preso Delors. Il proble- ma è che in questa legislatura per la prima volta siedono un centinaio di deputati che per principio votano contro l’Europa in qualsiasi occasione. Per questo con Martin Schulz abbiamo creato una maggioranza europeista tra socialisti e popolari, con il sostegno dei liberali e in qualche caso anche dei Verdi. Il nostro obiettivo è di dimostrare che tra Parlamento e Commissione c’è un nuovo modo di cooperare».
Ma perché sull’affare Luxleaks, dove è accusato di aver favorito l’elusione fiscale delle multinazionali quando era premier del Lussemburgo, non ha risposto subito?
«Non ho risposto perché quelle che mi rivolgevano non erano domande ma attacchi personali. La mia posizione è chiara, e l’ho espressa chiaramente durante la campagna elettorale. Secondo me le tasse si devono pagare nel Paese in cui si realizzano i profitti. Ho anche detto che sono in favore della tassa sulle transazioni finanziarie e ho proposto una direttiva per lo scambio automatico di informazioni sugli accordi fiscali specifici, i cosiddetti «Tax Ruling», che ogni Paese conclude con le grandi aziende. Ma su questa proposta il consenso non era certo unanime».
Chi si oppone?
«Diciamo che ho ricevuto l’appoggio di Germania, Francia, Italia e Spagna».
Insomma, nega di aver sottratto risorse fiscali agli altri governi dell’Ue?
«Noi non volevamo danneggiare gli altri Paesi. Ma certo cercavamo di attirare in Lussemburgo le grandi imprese. Per noi era essenziale diversificare la nostra economia. Un tempo si diceva che il Lussemburgo era un dono dell’acciaio come l’Egitto era un dono del Nilo. Anche mio padre lavorava in una acciaieria. Poi è arrivata la crisi della siderurgia e quando sono diventato capo del governo il mio primo decreto è stato quello di prepensionamento dei lavoratori siderurgici, compreso mio padre. In seguito siamo stati monopolizzati dal settore bancario. E io ho detto: non possiamo passare da una dipendenza ad un’altra. Abbiamo cercato di attrarre imprese di altri settori, dalle telecomunicazioni all’industria biomedica. Per un piccolo Paese come il nostro la diversificazione è un’esigenza vitale».
Se potesse tornare indietro, insomma, rifarebbe tutto quello che ha fatto?
«Sì. Rifarei le stesse scelte. Ma forse guarderei più in dettaglio alla legislazione fiscale, che non era di mia diretta competenza».
Lei sta imprimendo una svolta alla politica comunitaria. Ma riuscirà a convincere l’opinione pubblica tedesca ad accettarla?
«Il mio dilemma è che devo spiegare la stessa cosa a opinioni pubbliche molto diverse con sensibilità a volte opposte. Ma i governi sanno che, se non rispetteranno gli impegni che hanno preso per iscritto, avranno seri problemi. E questa non è una minaccia, ma una constatazione».
Forse, per spiegarsi, dovrebbe fare qualche viaggio in più in Francia e in Italia...
«Sento spesso Renzi al telefono e l’ho visto in molte occasioni. A volte, faccio viaggi che non sono pubblici. E quindi non ne parlo neppure con voi».