28 novembre 2014
Nessun taglio della produzione del petrolio: così è stato deciso al vertice Opec. Ma i sauditi sono d’accordo con gli Stati Uniti in questa sorta di guerra energetica? Intanto il greggio continua a crollare ma la benzina e il gasolio non si accorgono del tracollo: nel 2014 prezzi quasi fermi. Perché?
La Stampa
L’Opec decide di non tagliare la produzione di greggio premiando la strategia saudita di tenere bassi i prezzi per mettere in difficoltà i produttori nordamericani di “Shale Oil”, contando sul sostegno della Russia di Putin. Dall’andamento della sbrigativa riunione dell’Organizzazione dei 12 maggiori produttori di greggio (Opec) a Vienna esce una duplice novità: gli sceicchi di Riad considerano lo “Shale Oil” a stelle e strisce il maggior avversario e per metterlo fuori mercato sono alla guida di una coalizione di pozzi da Hormuz alla Siberia.
È la cronaca di quanto avviene dentro e fuori della sede Opec a Vienna che descrive i contenuti del «summit petrolifero più importante del secolo» come alcuni analisti lo definiscono. Il ministro saudita del Petrolio, Ali al-Naimi, inizia la giornata con un comunicato diffuso prima di uscire dall’hotel: «C’è l’accordo con i Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo sul mantenimento della produzione a 30 milioni di barili al giorno». Ovvero: Kuwait, Emirati Arabi Uniti e Qatar fanno quadrato con Riad. Poco dopo, entrando nella sede del summit, al-Naimi ricorda ai reporter in attesa che «c’è convergenza con la Russia».
Mosca non appartiene all’Opec ma è uno dei maggiori produttori, teoricamente dovrebbe sostenere un taglio della produzione perché ha bisogno di prezzi alti per equilibrare le finanze pubbliche ma sei giorni prima al Cremlino il ministro degli Esteri Segrei Lavrov ha siglato un patto con il collega saudita Saud Al-Faisal su «crisi regionali e greggio» che include l’avallo alla strategia di Riad. Il sostegno di Mosca conta per Ali al-Naimi perché è la carta che, al tavolo del summit, gli consente di neutralizzare l’opposizione dell’Iran, favorevole assieme a Iraq, Algeria, Venezuela e Libia a tagliare la produzione di 1 o 2 milioni di barili. Mosca è l’alleata strategica di Teheran in Medio Oriente – dalla difesa di Bashar Assad in Siria, al negoziato sul programma nucleare ancora in corso fino al patto per la fornitura di otto reattori – e gli ayatollah non vanno contro il Cremlino.
La seduta del summit Opec dunque si conclude senza storia – assicura chi siede nella sala – e poco dopo le 16 l’intesa è ufficiale: «La produzione resta stabile, niente vertici straordinari fino a giugno». Immediata la reazione sui mercati con il Brent che perde 6 dollari, attestandosi a 71,25 a barile.
«È una grande decisione» commenta Ali al-Naimi sfoggiando il sorriso del vincitore mentre da Mosca è Leonid Fedun, vicepresidente del gigante energetico Lukoil, a chiarire i motivi della scelta di Lavrov: «La politica Opec porterà al collasso la produzione di Shale Oil americano». Il riferimento è al boom di estrazione di greggio estratto con la tecnologia del “fracking” in Usa e Canada che sta consentendo al gigante nordamericano di emanciparsi dalla dipendenza dal Golfo fino ad accarezzare il miraggio dell’indipendenza energetica.
Per gli sceicchi del Golfo significa perdere l’acquirente più importante e la contromossa sono i prezzi bassi perché, come spiega Olivier Jakob di “Petromatrix”, «l’interesse dell’Opec è rallentare lo sviluppo dei progetti energetici in Nordamerica» che diventano fuori mercato se il prezzo dei barile si avvicina a 60 dollari. Non a caso il ministro del Petrolio kuwaitiano, Ali Saleh al-Omair, e quello iracheno, Adel Abdel Mehdi, parlano di un «limite minimo di 60-65 dollari» che consentirà «un nuovo equilibrio negli anni a venire sopra gli 80 dollari».
È la scommessa di Riad e Mosca: trasformare lo Shale Oil americano in un prodotto troppo caro al fine di prendere, assieme, le redini del mercato dell’energia globale. Per gli sceicchi di Riad significa fare lo sgambetto all’alleato Usa, partner privilegiato nel petrolio dai tempi di Franklin D. Roosevelt, mentre per Mosca è quella che alcuni reporter arabi definiscono “vendetta ucraina”: la risposta di Putin alla scelta di Washington di giocare la carta delle sanzioni economiche per mettere alle strette la Russia.
*****
La Stampa
La benzina non smette di stupire. Ieri i prezzi del petrolio, cioè della materia prima per raffinare i carburanti delle auto, sono crollati dopo la decisione dell’Opec di non tagliare le quote di produzione. Il barile di Brent che fa da riferimento in Europa è sceso a 72,94 dollari e il Wti americano a 69,28 dollari. Gli automobilisti non pretendono che la benzina e il gasolio si adeguino di minuto in minuto, ma ormai il movimento al ribasso del greggio dura da cinque mesi ed è un fatto curioso che i prezzi dei distributori non se ne siano quasi accorti.
Un gap che si allarga
Ricostruiamo in poche battute la storia del 2014. Fra gennaio e giugno il Brent oscillava fra 105 e 115 dollari al barile e la benzina in Italia costava fra 1,7 e 1,8 euro al litro. La situazione era stabile e la relazione fra i prezzi di greggio e carburante appariva consolidata (e fondata, si suppone, su parametri oggettivi). Poi per il petrolio sono cominciati cinque mesi di declino ma con effetti insignificanti sui listini di benzina e gasolio (il che mette in dubbio l’oggettività dei parametri). Impressionante il confronto complessivo sugli undici mesi, fra il 5 gennaio e il 27 novembre: Brent a 107,78 dollari al barile e benzina a 1,729 al litro come dati di partenza, e come numeri finali 76,26 dollari e 1,718 euro al litro. Quindi il Brent in dollari ha perso il 29% e la benzina in euro solo lo 0,6 per cento.
Perché tanta timidezza
Le compagnie petrolifere potrebbero accampare tre giustificazioni. Siccome i prezzi del barile e del litro sono espressi in valute differenti, la diversa dinamica dei listini potrebbe essere attribuita alla variazione del cambio tra monete. Ma non è vero. Il cambio al 5 gennaio era 1,302 dollari per un euro, ieri ne bastavano 1,2481 ma la variazione percentuale del prezzo del petrolio negli undici mesi si riduce di poco se il barile si misura in euro (-26,2% anziché -29%).
La scusa delle scorte
Un’altra giustificazione tradizionale da parte delle compagnie è che bisogna prima smaltire le scorte di greggio comprate ad alto prezzo e solo in seguito, man mano che affluisce il petrolio meno caro, si possono adeguare al ribasso il listino della benzina e quello del gasolio. Ma neanche questa scusa regge. Fatto 100 il prezzo di inizio gennaio, le ultime scorte di greggio comprate a prezzo 100 risalgono a luglio; da allora a novembre si è smaltito così poco da giustificare un taglio del prezzo finale di appena lo 0,6 per cento?
Le quotazioni Platts
Dulcis in fundo la spiegazione più tecnica fornita dalle compagnie petrolifere: quella che fa riferimento alle quotazioni Platts. Quando né le variazioni del cambio né lo smaltimento delle scorte vengono in aiuto, si sostiene che la vera variabile a cui guardare non è il prezzo del barile di greggio ma quello dei carburanti raffinati, di cui l’indice Platts costituisce la sintesi. Ebbene, neanche da questa variabile arriva una giustificazione plausibile per la benzina troppo timida nell’andare giù: le quotazioni Platts sono scese negli ultimi mesi in parallelo con quelle del barile.
Tabarelli: 4,2 cent di troppo
Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, dice al telefono che «il Platts benzina il primo giugno era a 55 centesimi di euro al litro, adesso» (cioè ieri, ndr) «è sceso a 44,5 centesimi», quindi in calo drastico. Stessa storia per il prezzo Platts gasolio: «Il primo giugno era 56 centesimi, poi è crollato a 48,6».
Nomisma Energia pubblica regolarmente nel suo sito web l’andamento di quello che definisce il «prezzo ottimale» della benzina e del gasolio, confrontati con l’andamento dei prezzi reali. Nella schermata di ieri fra il prezzo ottimale della benzina, basato sulle quotazioni Platts, e quello effettivo al distributore, risultava uno scarto di 4,2 centesimi al litro, e per il gasolio un divario di 2,6 centesimi calcolato con gli stessi criteri.
Ma Tabarelli non è ottimista sul calo dei prezzi dei carburanti: fra l’altro segnala come possibile, e forse anche probabile, un rimbalzo del petrolio, che per le compagnie chiuderebbe il discorso.
I mercati fanno i barili (di petrolio) ma non sempre i coperchi. Siamo così sicuri che il ribasso dell’oro nero ci porterà solo benefici? L’ultima guerra nel cuore del Medio Oriente, contro il Califfato, è la più paradossale vista negli ultimi anni: i prezzi del petrolio invece di salire, come quasi sempre è accaduto in passato, stanno crollando.
L’Iraq nell’estate del ’90 era diventato insolvente e non poteva rifondere i debiti contratti per fare la guerra all’Iran di Khomeini. Il greggio valeva in quel momento 11 dollari e la notte del 2 agosto del ’90 i carri armati iracheni invasero il Kuwait.
Ricordiamoci allora di questo vertice Opec che si è concluso lasciando invariata la produzione perché forse le decisioni di Vienna non ci accompagneranno a un roseo ribasso della nostra benzina ma verso orizzonti più oscuri e complessi. La spiegazione della crisi dei prezzi è politica, oltre che economica. Tutti sanno del calo della domanda mondiale e dell’impatto dello shale oil degli americani che esportano ormai quasi quanto Libia, Iran e Nigeria messi insieme. Ma a guidare la discesa dei prezzi aumentando la produzione sono i sauditi (un terzo della produzione Opec) che stanno orchestrando da alcuni mesi una manovra con conseguenze assai gradite agli americani: creare altri problemi a Russia e Iran, due Stati nemici e sotto sanzioni che dipendono per i loro bilanci da gas e petrolio. I proventi energetici contano per il 60% del bilancio di Teheran, per il 50% nella Russia di Putin.
L’Arabia, con la copertura americana, è quindi tornata protagonista garantendosi una sorta di rendita geopolitica in Medio Oriente. Sono stati i sauditi a decidere come e quando agire contrastando il fronte sciita di Iran e Iraq che all’inzio dell’anno puntavano a triplicare la produzione e sottrarre i mercati orientali agli altri concorrenti del Golfo.
Nella guerra del petrolio ha giocato un ruolo assai interessante il Califfato. L’obiettivo di questo conflitto, ad alto contenuto di atti barbarici ma a bassa intensità militare, non è far fuori subito i jihadisti dello Stato Islamico ma pilotare la caduta di Bashar Assad in Siria, alleato di Mosca e Teheran, e mettere con le spalle al muro gli sciiti in Iraq, per renderli più ragionevoli con la minoranza sunnita. Spuntare l’arma petrolifera in mano a Baghdad e a Teheran fa parte di questa strategia.
A Vienna, quasi a sorpresa, l’Iran si è allineato con la posizione saudita. È un accordo di comodo, che fa di necessità virtù. Teheran, dopo il rinvio dei negoziati sul nucleare, ha capito che non saranno tolte le sanzioni e per non perdere quote di mercato si è adeguata. L’Iran ha mangiato la foglia: non ci sarà un accordo strategico che riconoscerà un suo ruolo predominante nel Golfo e guadagna tempo cercando di minare le sanzioni con l’ingresso nella Shanghai Cooperation Organization (Sco), con il patto nucleare con Mosca e quello energetico con la Cina. In attesa che Mosca e Pechino creino a San Pietroburgo la camera di compensazione finanziaria alternativa a Swift per aggirare l’embargo finanziario.
Ma c’è un’altra faccia della medaglia. Anche i bilanci dei sauditi ne risentiranno. Questa volta però, al contrario degli anni ’90, l’Arabia può contare su riserve abbondanti: 750 miliardi di dollari. Non è detto però che chi produce i barili di greggio abbia pensato a fare anche i coperchi. La manovra di mettere alle corde Russia e Iran per rendere più malleabili Putin e gli ayatollah potrebbe non funzionare. Con il greggio a 10 dollari il governo del moderato Mohammed Khatami venne messo alle strette e a prevalere poi fu Ahmadinejad, esponente della linea dura dei Pasdaran. La situazione potrebbe ripetersi se il presidente Hassan Rohani non porterà a casa qualche risultato. Se Rohani fallisce, a Teheran vedremo altre facce al comando e ci ricorderemo di questo vertice Opec.