Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  novembre 27 Giovedì calendario

L’appello della scrittrice Arundhati Roy: «India, ribellati alle caste». Ogni sedici minuti un Intoccabile è vittima di un crimine. Come Surekha, uccisa perché aveva lottato per i suoi diritti. Perché il mondo si mobilita contro le ingiustizie, ma non censura il sistema sociale induista?

Mio padre era un Indù riformato, un Brahmo. L’ho conosciuto solo da adulta. Sono cresciuta con mia madre nella sua famiglia cristiana siriana del villaggio di Ayemenem, in Kerala, nell’India sud occidentale. Allora governavano i comunisti, ma vivevo tra le divisioni del sistema delle caste che squarciava e crepava il tessuto sociale. Ayemenem aveva la sua chiesa “Paraiyan”, in cui sacerdoti “Paraiyan” predicavano ai fedeli “intoccabili”. La casta si evinceva dal nome delle persone, da come si riferivano le une alle altre, dal lavoro che facevano, dagli abiti che indossavano, dai matrimoni che combinavano, dalla lingua che parlavano. Ma da studentessa in nessun testo scolastico trovai menzione del concetto di casta, mai. Fu leggendo Annientamento della Casta il testo scritto per una conferenza del 1936 da BR Ambedkar, autore e pensatore indiano, che mi resi conto, allarmata, della falla esistente nel nostro universo pedagogico. Leggere Ambedkar mi chiarì anche il motivo per cui quella falla esiste e continuerà ad esistere finché la società indiana non subirà un cambiamento radicale e rivoluzionario.
Se avete sentito parlare di Malala Yousafzai, una dei due vincitori del premio Nobel per la pace di quest’anno, ma non di Surekha Bhotmange, vi invito a leggere Ambedkar. Malala aveva solo 15anni, ma aveva già commesso vari reati. Innanzitutto era una ragazza, abitava nella valle dello Swat in Pakistan, poi era una blogger della Bbc, era apparsa in un video del New York Times e frequentava la scuola. Malala voleva fare il medico, suo padre voleva che entrasse in politica. Era coraggiosa. Lei (e il padre) ignorarono i Taliban quando dichiararono che le scuole non erano destinate alle ragazze e minacciarono di uccidere Malala se non avesse smesso di criticarli apertamente. Il 9 ottobre 2012 un killer la fece scendere dal bus della scuola e le piantò una pallottola in testa. Malala fu trasportata in aereo in Inghilterra e, dopo aver ricevuto le cure migliori del caso, sopravvisse. Fu un miracolo.
Il presidente degli Stati Uniti e il segretario di Stato americano le inviarono messaggi di sostegno e solidarietà. Madonna le dedicò un brano. Angelina Jolie scrisse un articolo su di lei. Malala è apparsa sulla copertina del Time. Pochi giorni dopo il tentato omicidio, Gordon Brown, inviato speciale delle Nazioni Unite per l’educazione globale, lanciò la petizione “Io sono Malala” per esortare il governo del Pakistan a garantire l’istruzione a tutte le bambine. In Pakistan proseguono i raid dei droni americani con la missione femminista di “far fuori” i terroristi islamisti misogini.
Surekha Bhotmange aveva 40 anni e, come Malala, vari reati alle spalle. Era una donna in primis – una dalit “intoccabile” che viveva in India ed era povera in canna. Era più istruita del marito, quindi faceva le veci di capo famiglia. Ambedkar era il suo idolo. Come lui, la famiglia di Surekha aveva ripudiato l’induismo per convertirsi al buddismo. I figli di Surekha erano istruiti. I due maschi, Sudhir e Roshan, avevano frequentato l’università. La figlia, Priyanka, aveva 17 anni e stava terminando le superiori. Surekha e il marito avevano comprato un piccolo appezzamento di terreno nel villaggio di Khairlanji, nello stato del Maharashtra. La loro proprietà era circondata da fattorie appartenenti a caste che si consideravano superiori alla casta Mahar, cui apparteneva Surekha. Poiché era una Dalit e non aveva diritto ad aspirare a vivere bene, la panchayat (assemblea) del villaggio non le permise di collegarsi alla rete elettrica né di trasformare la capanna di fango col tetto di paglia in una casa di mattoni. Gli abitanti del villaggio non permettevano alla famiglia di Surekha di irrigare i campi con l’acqua del canale, o di attingere al pozzo pubblico. Cercarono di costruire una strada pubblica attraverso la proprietà della donna e, alle sue proteste, passarono coi carri trainati da buoi sui suoi terreni. Lasciavano le loro bestie pascolare sulle sue coltivazioni.
Ma Surekha non cedette. Si rivolse alla polizia che non le prestò orecchio. Nel corso dei mesi la tensione nel villaggio salì alle stelle. A mo’ di avvertimento, gli abitanti aggredirono un parente della donna, lasciandolo moribondo. Surekha sporse nuovamente denuncia. Questa volta la polizia procedette a degli arresti, ma gli accusati furono rilasciati su cauzione quasi subito. Il giorno del rilascio, il 29 settembre 2006, alle sei di sera, circa 40 persone del villaggio, uomini e donne, arrivarono furibondi sui trattori e circondarono la casa dei Bhotmange. Il marito di Surekha, Bhaiyalal, che era nei campi, udì il rumore e corse a casa. Nascosto dietro un cespuglio vide la folla aggredire la sua famiglia. Corse a Dusala, la città più vicina e, attraverso un parente, riuscì a chiamare la polizia. (Servono i contatti giusti anche solo perché la polizia risponda a telefono). I poliziotti non arrivarono mai. La folla trascinò fuori di casa Surekha, Priyanka e i due ragazzi, uno parzialmente non vedente. Ai ragazzi fu ordinato di stuprare la madre e la sorella; al loro rifiuto vennero mutilati dei genitali e infine linciati. Surekha e Priyanka subirono uno stupro di gruppo e vennero massacrate di botte. I quattro corpi vennero gettati nel vicino canale dove furono ritrovati il giorno successivo.
Inizialmente la stampa presentò l’accaduto come “delitto d’onore”, riportando che gli abitanti del villaggio erano indignati perché Surekha aveva una relazione con un parente (la vittima della precedente aggressione). A seguito delle proteste di massa inscenate dalle organizzazioni Dalit, la magistratura fu infine spinta a prendere atto del delitto. Comitati di cittadini indagarono sull’accaduto, rivelando l’inquinamento delle prove. Nel primo grado di giudizio i principali autori del delitto vennero condannati a morte, ma non venne invocata la legge di Prevenzione delle atrocità riferita alle caste e alle tribù intoccabili – il giudice ritenne che il massacro di Khairlanji fosse un crimine dettato da desiderio di “vendetta”. Disse che non sussistevano prove dello stupro e che l’omicidio non aveva connotazioni di casta. Se un giudice indebolisce il quadro giuridico in cui è inserito il reato per il quale commina poi la pena di morte, non fa che spianare la strada alla riduzione o addirittura alla commutazione della pena da parte dell’organo di giudizio superiore. Non è una prassi insolita, in India. La condanna a morte di un individuo, per quanto efferato sia il suo crimine, difficilmente può essere definita un atto di giustizia. L’ammissione da parte del tribunale che il pregiudizio di casta continua ad essere un’orrenda realtà in India sarebbe stato un passo in direzione della giustizia. Invece il giudice si è limitato a cancellare la casta dal quadro.
Surekha Bhotmange e i suoi figli vivevano in una democrazia orientata al mercato, quindi niente petizioni Onu con lo slogan “Io sono Surekha”, né messaggi indignati di capi di stato rivolti al governo indiano. Meno male, non vogliamo mica che ci sgancino bombe addosso solo perché da noi vige il sistema delle caste.
«Per gli intoccabili», scrisse Ambedkar nel 1945, con un coraggio che gli intellettuali di oggi in India fanno fatica a trovare, «l’induismo è una vera camera degli orrori». Per un autore dover usare termini come “Intoccabili”, “casta intoccabile”, “classe arretrata” e “altre classi arretrate” per definire esseri umani come lui è come vivere in una camera degli orrori. Dato che Ambedkar ha usato il termine “Intoccabili” con rabbia fredda, lucida, e senza batter ciglio, devo farlo anch’io. Oggi il termine “Intoccabile” è stato sostituito da quello Marathi “Dalit” (“gente svantaggiata”), che viene a sua volta usato in maniera intercambiabile con “casta registrata.” Questa prassi, come indica lo studioso Rupa Viswanath, non è corretta, perché il termine “Dalit” include intoccabili che si sono convertiti ad altre religioni per sfuggire allo stigma della casta (come i Paraiyan del mio villaggio che si erano convertiti al cristianesimo), non considerati nell’accezione “casta registrata”. La nomenclatura ufficiale del pregiudizio è un labirinto che porta ad una burocratizzazione del discorso. Per tentare di evitarlo, nella maggior parte dei casi, ma non sempre, uso il termine “Intoccabile” quando mi riferisco al passato e “Dalit” quando scrivo del presente. In riferimento a Dalit convertiti ad altre religioni specifico Dalit sikh, Dalit musulmani, o Dalit cristiani.
Stando ai dati ufficiali del National Crime Records Bureau ogni sedici minuti un Dalit è vittima di un crimine commesso ai suoi danni da un non Dalit; ogni giorno più di quattro donne Intoccabili vengono stuprate da Toccabili; ogni settimana 13 Dalit vengono assassinati e sei Dalit rapiti; nel solo 2012, l’anno in cui una ventitreenne venne uccisa a Dehli dopo uno stupro di gruppo, sono state violentate 1574 donne Dalit (di regola si calcola che venga denunciato solo il 10 per cento degli stupri o altri reati commessi ai danni di Dalit) e 651 Dalit sono stati assassinati. Questo solo per quanto riguarda gli stupri e le carneficine. Non sono contemplate le umiliazioni, come essere denudati e costretti a sfilare nudi, a mangiare merda (letteralmente), i sequestri dei terreni, il boicottaggio sociale in varie forme, la limitazione di accesso all’acqua potabile. Bant Singh, un Dalit Mazhabi Sikh dello stato del Punjab, nel 2005 ha subito l’amputazione di entrambe le braccia e di una gamba perché aveva osato sporgere denuncia contro gli stupratori della sorella. Il suo caso non compare nelle statistiche ufficiali dei reati: non esiste la categoria “triplice amputazione”.
«Se la comunità si oppone ai diritti fondamentali non c’è legge, né parlamento, né magistratura che possa garantirli nel vero senso della parola», diceva Ambedkar. «Cosa se ne fanno dei diritti fondamentali i negri in America, gli ebrei in Germania e gli intoccabili in India? Come diceva Burke, non si è ancora trovato il metodo per punire le masse». Chiedete a un qualunque poliziotto di campagna in India e probabilmente vi dirà che il suo compito è “mantenere la pace”. Questo si fa per lo più difendendo il sistema delle caste. Le istanze dei Dalit infrangono la pace.
Altri abomini contemporanei come l’apartheid, il razzismo, il sessismo, l’imperialismo economico e il fondamentalismo religioso sono stati oggetto di critica sotto il profilo politico e intellettuale a livello internazionale. Come mai il sistema delle caste in India – una delle modalità più brutali di organizzazione sociale gerarchica che l’umanità conosca – è riuscito a sfuggire a un simile scrutinio e censura? Forse perché è ormai talmente fuso con l’Induismo e, per estensione, con ciò che è giudicato bello e buono (il misticismo, lo spiritualismo, la non violenza, la tolleranza, il vegetarismo, Gandhi, lo yoga, il turismo zaino in spalla, i Beatles) che, almeno dal di fuori, sembra impossibile scardinarlo e tentare di comprenderlo.
(Copyright Arundhati Roy
Traduzione di Emilia Benghi)