Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 1989  luglio 11 Martedì calendario

Ambrosoli dieci anni dopo. Una morte che pesa ancora (articolo del 11/7/1989)

DIECI anni fa, la sera dell’ 11 luglio 1979, in via Morozzo della Rocca a Milano, fu ucciso un italiano per bene, un uomo di coraggio, un giusto. Si chiamava Giorgio Ambrosoli, aveva 45 anni, faceva l’ avvocato. Lo Stato l’ aveva incaricato di liquidare l’ impero di Michele Sindona e di veder chiaro in quel pozzo nero fatto di mafia, finanza di rapina, politica affaristica e protezioni di poteri palesi e occulti. Ambrosoli fece il suo dovere e qualcuno cercò di fermarlo. Lui non si fermò, e allora quelli del pozzo nero l’ assassinarono. E’ servita a qualcosa la sua morte? Dieci anni dopo, mi viene una risposta doppia. Sì, è servita a molto, perché, grazie ad Ambrosoli, noi italiani abbiam capito tante cose sul nostro paese. No, non è servita a niente, poiché l’ Italia politicamente vincente è la stessa di allora. Giorgio Ambrosoli, sposato e padre di tre figli piccoli, era un professionista affermato. Era anche un moderato, anzi, un monarchico, vale a dire, secondo alcuni stereotipi che reggono ancora, il tipo di cittadino alieno da furori giustizialisti. Quando nel settembre 1974 la Banca d’ Italia gli affidò l’ incarico di liquidatore della Banca Privata Italiana, Ambrosoli s’ imbatté in tre magistrati milanesi che stavano indagando sul crack Sindona. Erano i giudici istruttori Ovilio Urbisci e Bruno Apicella, con il sostituto procuratore Guido Viola. Questi quattro uomini si trovarono a tirare lo stesso carro, per strade sempre più accidentate, lungo un vero percorso di guerra. Mi raccontò, anni dopo, Viola: L’ ostacolo più grave fu l’ indifferenza del potere governativo. Abbiamo incontrato difficoltà inenarrabili per tutto: per l’ estradizione di Sindona dagli Stati Uniti, per la traduzione dei documenti, persino per incontrare a New York i magistrati americani che s’ occupavano del crollo della banca di Sindona in Usa, la Franklin Bank. Lei mi chiede perché quest’ inerzia del potere esecutivo? FU SEMPLICE capirlo quando facemmo una scoperta. Mentre noi lavoravamo per contestare a Sindona i suoi reati, veniva portato avanti un progetto per salvare Sindona. Lo gestivano gruppi occulti, con il patrocinio di altissime autorità. Certo, abbiamo avuto l’ appoggio del governatore Baffi e di Sarcinelli, allora capo della vigilanza in Bankitalia. Ma in complesso siamo rimasti isolati. L’ establishment politico-finanziario non aveva alcun interesse che facessimo il processo a Sindona. Quanto potenti fossero questi freni, lo si vide all’ inizio del 1979, l’ anno cruciale dell’ inchiesta. Ambrosoli cominciò a ricevere minacce telefoniche sempre più incalzanti e mirate. Avevano uno scopo dichiarato: terrorizzarlo per indurlo ad accettare il piano di salvataggio di Sindona, piano che Ambrosoli rifiutava in base al principio che il crack sindoniano doveva esser pagato dai responsabili, e non dalle casse dello Stato, ossia dai cittadini. Arrivarono a gridargli al telefono: Avvocato, lei è degno solo di morire ammazzato come un cornuto! Lei è un cornuto e un bastardo!. Ambrosoli non si lasciò intimorire. Non era un ingenuo. Aveva percorso, metro dopo metro, il labirinto delle malefatte di don Mike. E sapeva che cosa poteva toccargli. Anzi, era presago del buio che l’ attendeva. Lo era stato anche al momento di accettare la nomina a liquidatore, tanto che nel febbraio 1975 aveva scritto queste parole in una lettera-testamento indirizzata alla moglie Annalori: Pagherò a molto caro prezzo questo incarico. Lo sapevo prima di accettarlo, e quindi non me ne lamento affatto, perché per me è stata un’ occasione unica di fare qualcosa per il mio paese. A quarant’ anni, di colpo, ho fatto politica, e in nome dello Stato e non per un partito. Nel marzo 1979, viste inutili le minacce ad Ambrosoli, la pressione s’ indirizzò su altri due servitori dello Stato che rifiutarono d’ aiutare Sindona: Sarcinelli fu arrestato e Baffi evitò Regina Coeli soltanto per l’ età. Disgustato da ciò che accadeva e da quel che intuiva, Ambrosoli si dimise da liquidatore. Poi, però, tornò a lavorare. Tanti fatti l’ inducevano a pensare d’ esser quasi giunto al cuore dell’ enigma Sindona. Là avrebbe trovato la prova che, a fianco di don Mike, agiva un potere nero, parallelo a quello ufficiale, ma fitto degli stessi nomi, degli stessi volti. Ambrosoli non fece in tempo a giungere nel cuore del labirinto. Il 9 luglio 1979, dinanzi al giudice americano venuto a Milano per indagare sul crollo della Franklin, l’ avvocato produsse una serie di documenti che inchiodavano Sindona e rese la deposizione-chiave dell’ inchiesta. La sua testimonianza si concluse nel pomeriggio dell’ 11 luglio. L’ indomani mattina Ambrosoli avrebbe dovuto firmare il verbale. Non lo firmò mai, perché quella notte l’ assassinarono sulla porta di casa, con tre colpi di pistola 357 Magnum. La tenacia di altri due giudici istruttori, Giuliano Turone e Gherardo Colombo, affiancati sempre dal sostituto procuratore Viola, portò Sindona in Corte d’ Assise come mandante dell’ omicidio Ambrosoli. Nella Parte prima della requisitoria, Viola scrisse: La cosa a nostro avviso più grave, e su cui non si è ancora meditato abbastanza, è l’ appoggio che al piano di salvataggio di Sindona (vera e propria truffa nei confronti della Banca d’ Italia e quindi della comunità nazionale) veniva dato da altissimi esponenti politici, primo fra tutti l’ allora presidente del Consiglio dei ministri, on. Giulio Andreotti. In un primo momento, infatti, sembrò al Pubblico Ministero frutto di pura fantasia che uomini di tal peso politico si adoperassero ancora, a distanza di cinque anni dai fatti, per favorire in qualche modo Michele Sindona. Eppure le indagini avrebbero dimostrato che era proprio così. L’ onorevole Evangelisti scrisse il procuratore Viola pur minimizzando il suo intervento, non poté che confermare la convocazione a Palazzo Chigi del dottor Sarcinelli. Ha confermato, cioè, di avergli sottoposto il piano di salvataggio, pur ribadendo che, ricevuto il diniego e comunque l’ opposizione di Sarcinelli, non se n’ era più interessato. E invece le cose non andarono in tal modo, perché Andreotti in persona fece pressioni sul ministro Stammati, e Stammati a sua volta fece pressioni (non raccolte) sul direttore generale della Banca d’ Italia, Ciampi. Viola concluse: E’ stato evidente come le vicende attinenti alla gestione del progetto di salvataggio si siano intrecciate strettamente con le attività criminali di minacce, estorsioni, attentati e omicidio di cui Sindona sarà incontrastato regista. Nel marzo 1986, quattro giorni dopo la condanna all’ ergastolo come mandante dell’ omicidio Ambrosoli, Sindona morì avvelenato nel carcere di Voghera. Qualche altro protagonista di questa storia è morto di morte più o meno naturale. Nel frattempo, i tre figli di Giorgio sono cresciuti. Vivono con la madre Annalori a Milano, città non immemore di un uomo giusto assassinato dieci anni fa. E a Milano, e in Italia, il ricordo di Ambrosoli scava come un vecchia, buona talpa nelle coscienze di molti. Su questo piano, dunque, la sua morte è servita. Non è servita, invece, su di un piano diverso. L’ altra Italia, quella contro cui s’ era battuto Ambrosoli, è più che mai forte, rampante, grintosa, e ci sbatte in faccia, ogni giorno, la sua voglia di potere. E’ vero: da quel 1979, molti santuari sono saltati. Ma, come ha scritto su Società Civile Marco Vitale, la nomenklatura politicamente responsabile di tante degenerazioni è ancora tutta al comando. Sì, al comando come prima, più di prima. Intoccabile. Sprezzante. Impunita.