La Stampa, 12 luglio 1979
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La morte di Ambrosoli raccontata dai cronisti dell’epoca
L’avvocato Giorgio Ambrosoli, 46 anni, uno dei più accaniti accusatori del finanziere Michele Sindona, è stato ucciso nella notte tra mercoledì e giovedì in un attentato. Tre giovani lo hanno atteso sotto casa e gli hanno sparato al petto quattro colpi di pistola. L’avvocato Ambrosoli era stato minacciato di morte più volte proprio per il suo attivismo nel lavoro di liquidatore della Banca Privata Italiana, l’istituto di credito creato da Sindona fondendo la Privata Finanziaria e la Banca Unione e fallito nel ’74 con un buco, di quasi 300 miliardi. Non aveva nessuna scorta e i killers hanno avuto un compito facile Giorgio Ambrosoli aveva trascorso la serata in compagnia di amici. La moglie Anna e i tre figli sono al mare, vicino alla Spezia. Era andato al ristorante tornando presto a casa per assistere alla televisione al match di boxe in programma. Al termine è sceso in strada In maniche di camicia: con la sua Alfetta ha accompagnato due amici a casa e pochi istanti prima della mezzanotte era di ritorno. Ambrosoli ha aperto la portiera per scendere, un po’ impedito nei movimenti da una macchina parcheggiata sul marciapiede. Lo hanno affrontato tre giovani che gli hanno chiesto: «È lei l’avvocato Ambrosoli? Aveva appena risposto affermativamente quando hanno sparato. È crollato a terra, i piedi ancora dentro l’auto, raggiunto da quattro proiettili, probabilmente calibro 38, al petto, al braccio destro, all’ascella e alla spalla sinistra. Gli assassini sono scappati subito a bordo di una 127 rossa forse guidata da un quarto complice. Le detonazioni hanno svegliato il portinaio del palazzo in cui il professionista abitava. Ha guardato dalla finestra, quindi ha chiamato la polizia e un’ambulanza e si è precipitato fuori.
Ambrosoli era ancora vivo. A un agente ha fatto in tempo a mormorare quello che era avvenuto, poi ha perso conoscenza per non riprenderla più: è morto prima dell’una mentre il personale del Policlinico si affannava per salvarlo. La morte gli ha impedito di sottoscrivere le cinquanta cartelle dattiloscritte di deposizione che aveva appena finito di rilasciare al giudici americani che stanno Istruendo il processo contro Michele Sindona. Dal 9 luglio, infatti. Ambrosoli passava le sue giornate al Palazzo a rispondere alle domande che gli poneva il giudice Giovanni Galati per conto dei rappresentanti del tribunale federale di New York. William Jackson e Samuel Gillespie, alla presenza di Walther Mack. assistente del procuratore distrettuale e dei legali di Sindona. Steven Stein e John Kirby. Secondo quanto si è appreso, negli ambienti giudiziari la testimonianza di Ambrosoli è stata considerata determinante, e lo stesso liquidatore della Banca Privata si era espresso in questo senso.
Per la giustizia italiana la sua deposizione, benché non firmata, è ugualmente valida e, secondo esperti del diritto americano, lo stesso dovrebbe essere negli Usa. Ambrosoli ha consegnato agli inquirenti americani anche un’abbondante mole di materiale a sostegno di quanto diceva, smentendo in questo modo l’affermazione dei legali di Sindona secondo i quali la prova dell’innocenza del loro cliente stava negli archivi della banca. Proprio per questo, dicevano, il governo italiano non vuole fornire i documenti. Con questi giorni di lavoro, invece, gli inquirenti Usa si sono potuti render» conto che i documenti sono pubblici ad eccezione di una piccola parte oggetto di processo in Italia, coperta dal segreto Istruttorio, e di un’altra coperta invece dal segreto bancario.
Ambrosoli, tra l’altro, era già stato convocato dai giudici di New York per testimoniare a settembre nel processo contro Sindona e non v’è dubbio che la sua assenza costituisca un grosso sollievo per la difesa del finanziere siciliano. Per le minacce che aveva ricevuto a partire dalla fine dell’anno scorso Ambrosoli che pure non era un tipo impressionabile, aveva ritenuto opportuno avvertire la procura della Repubblica. Se dovessimo scortare tutti quelli che ricevono minacce — è stato Il commento in procura — non basterebbe un esercito. Per ora i magistrati hanno ben poco su cui lavorare. Certo l’unico elemento di cui disponiamo — ha detto Ferdinando Pomarici. sostituto incaricato dell’inchiesta — sono le minacce e l’attività di Ambrosoli come liquidatore della Banca Privata Italiana, oltre alla sua testimonianza americana. Probabilmente — ha aggiunto dopo una pausa — ha pagato con la vita il suo impegno nel lavoro. Lo stesso magistrato ha ora in mano anche l’istruttoria aperta in seguito alle minacce di morte, ma non ha voluto confermare di avere Inviato a questo proposito una comunicazione giudiziaria a Michele i Sindona. In passato il dott. Pomarici era impegnato in un altro procedimento connesso con Sindona. quando al console italiano a New York si presento un avvocato Italiano per –raccomandargli, di fare tutto il possibile perché l’estradizione non venisse concessa. Particolarmente colpito dall’uccisione di Ambrosoli è apparso il sostituto procuratore Guido Viola. Il magistrato che dal ’74 lavorava a stretto contatto con lui per perseguire le Irregolarità connesse all’ultimo periodo di attività della Banca Privata Italiana.
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Cinque anni fa a 41 anni Giorgio Ambrosoli si era guadagnato una improvvisa fama al Palazzo di Giustizia diventando il liquidatore della «Banca privata italiana», la banca di Sindona messa in liquidazione dal ministero del Tesoro nel settembre del 1974 Lavorando per cinque anni assiduamente fra le carte della intricata contabilità sindoriana (che dalla «Banca privata italiana», il cuore dell’impero del finanziere di patti, portavano in Svizzera, alla «Finabank», e negli Stati Uniti, alla «Banca Franklin» il più grosso acquisto del gruppo), Ambrosoli stava per concludere la propria istruttoria ricostruendo le tappe del più grosso scandalo finanziario italiano del dopoguerra ed uno dei più gravi scandali bancari ‘ Michele Sindona, definito quando era in auge il salvatore della lira dall’ex-presidente del Consiglio Giulio Andreotti, si rifugiò precipitosamente à New York nel 1974 lasciando in Italia un «buco» che sì calcola in almeno 600 miliardi di lire che ricadde in parte sul Banco di Roma autore di un tentativo di salvataggio rilevando per 100 milioni di dollari la maggioranza della «Generale Immobiliare» e delle banche, in parte sugli azionisti delle società che si videro polverizzato il capitale, in parte sui contribuenti.
Le conseguenze economiche di Sindona non si limitarono all’Italia. In Germania fallì una piccola banca che all’opinione pubblica le pesanti pressioni in favore di Sindona del mondo politico romano dove il finanziere contava numerose protezioni. Sindona capitolò accusando a sua volta La Malfa, Enrico Cuccia (amministratore delegato di Mediobanca) e altri di far parte di una congiura contro di lui. Cominciò a mandare segnali di avvertimento al mondo politico e finanziario che lo aveva protetto e sostenuto perché si adoperasse ad evitargli le conseguenze penali del suo dissesto. Un tentativo di chiudere la vicenda in maniera favorevole a Sindona fu fatto qualche mese fa proprio quando le autorità americane, dopo anni di inspiegabile inerzia, stavano per incriminare il finanziere siciliano per il crack della «Franklin». Il tentativo passava per la «Privata Italiana» perché per poter sistemare la posizione di Sindona in Italia occorreva stabilire che il fallimento della banca «privata» non presentava gravi aspetti penali. Giorgio Ambrosoli non era certo un personaggio malleabile pronto ad avallare una manovra di questo genere. Fu minacciato. «Il caso sta molto a cuore dell’onorevole Andreotti» pare si sia sentito dire.
La magistratura milanese ha aperto un’inchiesta per questa intimidazione contro ignoti. Ora non serve più difendere Ambrosoli dalle pressioni e dalle minacce, finanziere siciliano controllava insieme al Vaticano, il suo principale partner in affari, in Svizzera la «Finabank» chiuse e fu messa in liquidazione, in Usa la «Franklin» entrò in gravi difficoltà e fu rilevata da una banca inglese. Le ragioni del crack furono le dissennate speculazioni, soprattutto sui cambi ma anche su alcune materie prime come l’argento (comprò assieme alla Montedison metà della produzione mondiale). Puntò le sue carte su un rialzo del dollaro nella primavera del 1974 contando sull’effetto della crisi energetica ma sbagliò i tempi perché il rialzo ci fu, ma sei mesi dopo le sue previsioni. Per rifarsi si buttò a capofitto su altre speculazioni, soprattutto contro il franco francese nella speranza che una vittoria della sinistra guidata da Mitterand assestasse un colpo pesante al cambio della moneta. Quando ormai non poteva più sperare in rapidi utili speculativi pensò di salvarsi lanciando in Italia una maxi-operazione finanziaria imperniata sulla possibilità di raccogliere 250 miliardi di capitali freschi dai risparmiatori italiani attraverso la «Finambro». Trovò però sulla sua strada Ugo La Malfa che pur di non concedergli l’autorizzazione del Tesoro (La Malfa era allora ministro) non esitò a violare la legge rifiutandosi di convocare il comitato del credito e del risparmio e denunciando Marco Borsai.