Panorama, 23 luglio 1979
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Perché hanno ammazzato Giorgio Ambrosoli? È come chiedersi perché due più due fa quattro. Basta ripercorrere tutto quello che Ambrosoli aveva scoperto da quando era diventato liquidatore della Banca privata italiana di Sindona per avere la chiave di questa esecuzione
«Perché hanno ammazzato Giorgio Ambrosoli? È come chiedersi perché due più due fa quattro. Basta ripercorrere tutto quello che Ambrosoli aveva scoperto da quando era diventato liquidatore della Banca privata italiana di Sindona per avere la chiave di questa esecuzione». Allibiti, rabbiosi, gli uomini della Guardia di finanza che da anni erano il braccio operativo di Ambrosoli nella estenuante e paziente ricostruzione del più grande crack finanziario del secolo, non hanno dubbi sull’origine delle quattro pallottole calibro 38 che la notte di mercoledì 11 luglio hanno fracassato il cuore all’avvocato certamente più esposto e forse più odiato d’Italia.
Questa certezza anche Guido Viola, il sostituto procuratore di Milano che insieme al giudice istruttore Ovilio Urbisci indaga da sei anni sul crack, l’ha condivisa commentando: «Quando si vedono film come Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, sale dentro tanta rabbia, ma sembrano cose lontane. Invece è tutto vero. Chi, come Ambrosoli, cerca la verità in affari così sporchi può incontrare una rivoltella».
E chiarisce definitivamente Ferdinando Pomarici, il magistrato che ha il compito di scoprire chi ha armato la mano dei killer: «Nessuna traccia, solo un’ipotesi di lavoro: l’attività di Ambrosoli».
Eppure la morte di Ambrosoli non è arrivata così imprevista. Mancavano quattro giorni a Natale quando ricevette la prima telefonata di avvertimento da una misteriosa voce italo-americana che lo invitava a «chiudere bene per tutti la liquidazione della banca, senza dispiacere a Sindona». Con Panorama Ambrosoli si era confidato. C’erano state altre telefonate: «Mi blandivano con promesse di denaro o mi terrorizzavano con avvertimenti mafiosi».
Speranze. Preoccupato, ma non al punto di accettare, come gli consigliavano i magistrati, una scorta, Ambrosoli aveva continuato a fare la spola tra casa sua, la sede della Banca privata italiana in via Verdi e il palazzo di Giustizia. Proprio al tribunale, la mattina di giovedì 12, sarebbe dovuto salire fino al secondo piano, stanza 33, nell’ufficio del giudice Giovanni Galati, per rivelare gli ultimi e più importanti elementi che avrebbero dovuto inchiodare Sindona anche con la giustizia americana. Erano stati i legali del finanziere latitante a chiedere la testimonianza di Ambrosoli, nella speranza che l’implacabile accusatore di Sindona cadesse in contraddizione o mostrasse sfilacciature nella tela di indagini a cui lavorava dal settembre 1974, quando la Banca privata italiana (Bpi) era crollata. «Dica il testimone qual è l’incarico che ricopre nella banca», gli aveva chiesto Thomas Griesa, giudice federale di New York. «E Ambrosoli, con la freddezza abituale, la voce sicura, aveva iniziato il suo atto d’accusa, snocciolando per ore e ore, tre giorni di seguito, date, documenti, episodi che invece di salvare Sindona lo stringevano sempre più alle sue responsabilità», affermano all’ufficio istruzione del tribunale di Milano. «La mattina di quel giovedì 12 Ambrosoli non avrebbe dovuto soltanto mettere la sua firma alla deposizione resa. Alle 52 cartelle di testimonianza se ne sarebbero dovute aggiungere molte altre, forse le più esplosive».
Sindona non era l’unico bersaglio di Ambrosoli. Nel suo ufficio al primo piano di via Verdi, dove per anni aveva passato fino a 17 ore al giorno dietro un tavolo a forma di ferro di cavallo, facendo della sede della Bpi un’agguerrita centrale di indagini, l’avvocato milanese custodiva altri documenti, altre prove, sui legami oscuri tra Sindona e il Vaticano, il sottobosco politico, alti esponenti democristiani, potenti logge massoniche, insospettabili banchieri e agenti di cambio. Tanti inquisiti, dentro e fuori il palazzo, che non stanno certo piangendo la sua morte. Altrettanti nemici di Ambrosoli tra i quali c’è sicuramente il mandante del suo assassinio, come fanno capire i magistrati.
Insomma, quello che per Ambrosoli era stato all’inizio solo un incarico professionale affidategli dalla Banca d’Italia per tentare di circoscrivere il colossale buco finanziario provocato dal crack di Sindona e per trovare il bandolo dell’intricata matassa di società fantasma dell’ex-impero Sindona, era via via diventata una pericolosa inchiesta che aveva squarciato i segreti della connivenza tra potere e gangsterismo finanziario. Proprio a lui era toccato, che non aveva certo la grinta dei castigamatti, che era politicamente moderato (al punto di conservare incorniciati i ritratti degli ultimi reali d’Italia).
Nominato liquidatore con alle spalle una fama di avvocato commercialista passato per la prova della liquidazione della Sfi, un intricato scandalo finanziario in cui erano rimasti coinvolti industriali lombardi, quel posto Ambrosoli se l’era però guadagnato soprattutto per la stima di cui godeva presso un uomo molto vicino al potere: Tancredi Bianchi, uno dei maggiori esperti economici italiani, che contemporaneamente ha ricoperto le cariche di consulente alla Banca d’Italia, di presidente del collegio sindacale del Banco di Roma (la banca pubblica che ha sofferto le maggiori perdite per il crack di Sindona) e di quello della Bpi.
«Ambrosoli nasce con il macchio del potere», afferma oggi l’avvocato Giuseppe Melzi, un personaggio che è stato a lungo suo avversario come legale dei piccoli azionisti e dei dipendenti della banca. «Ma neanche un moderato come lui poteva ritrarsi, mettere coperchi. Si è così ritrovato contro quello stesso potere che lo aveva scelto».
L’episodio più significativo della guerra aperta contro di lui è dello scorso autunno: le pressioni ricevute da uno degli avvocati di Sindona, Rodolfo Guzzi, unite a quelle di un ministro e di Franco Evangelisti, braccio destro dell’ex-presidente del Consiglio Giulio Andreotti, sul vicedirettore della Banca d’Italia Mario Sarcinelli, che spingevano a comporre l’affare Sindona con una serie di espedienti finanziari. Scopo: creare le condizioni per la revoca del mandato di cattura per bancarotta fraudolenta pendente su Sindona mettendo a tacere con quattrini dello Stato i creditori della Bpi.
Sottovalutava. Ambrosoli si era opposto a questo progetto e con lui anche i responsabili della Banca d’Italia. Una opposizione che, secondo molti, e all’origine della violenta azione giudiziaria nei confronti del governatore Paolo Baffi e di Sarcinelli, e, per Ambrosoli, delle telefonate minatorie ricevute. Nonostante tutto Ambrosoli non era mai arrivato a pensare che il suo incarico potesse riuscirgli fatale. La verità che stava cercando, lo sapeva, era delicata, ma era convinto che nulla potesse capitargli svolgendo un incarico che restava di natura professionale e che era strettamente legato a un’indagine della magistratura milanese. In realtà, sottovalutava i suoi nemici, molti e potenti in uno scandalo di dimensioni così vaste.
Da parte di Sindona, per esempio, era guerra dichiarata. «Solo una battaglia giudiziaria», il finanziere si è affrettato a far sapere da oltreoceano dopo l’esecuzione di Ambrosoli: «Nessuno deve collegarmi a questo atto di viltà e inizierò immediate e decise azioni legali contro chiunque dovesse farlo». Restano indicazioni inquietanti per gli inquirenti. Una delle telefonate minatorie la ascoltò nello studio di Ambrosoli un avvocato vicino a Sindona. L’avvocato fu avvertito che la telefonata veniva registrata. Dopo pochi giorni Ambrosoli non fu più soltanto blandito dal suo anonimo persecutore, ma violentemente apostrofato: «Brutto bastardo, hai voluto fare il furbo». Chi aveva avvertito l’anonimo interlocutore che le telefonate venivano registrate? E ancora: perché Viola, che aveva aperto un’inchiesta sulla vicenda, ha emesso per questi fatti una comunicazione contro Sindona?
Nei confronti del liquidatore della Bpi il finanziere siciliano non aveva mai usato parole leggere. Nella sua spregiudicata autodifesa, impostata sulla negazione assoluta di responsabilità decisive nel crack, Sindona non ha esitato, per esempio, a definire Ambrosoli «disonesto, ladro, fazioso, ignorante».
Atto d’accusa. L’ultima bordata, poi, si trova nella voluminosa memoria difensiva presentata dai suoi legali al giudice istruttore Urbisci in risposta all’atto di accusa numero uno contro di lui: la relazione di Ambrosoli sugli illeciti commessi alla Bpi, «Giorgio Ambrosoli come commissario è decisamente influenzato dal proprio convincimento personale quindi tutta la sua attività è stata impostata al fine di perseguire uno scopo preciso: colpire Michele Sindona», hanno scritto gli avvocati del finanziere di Patti.
In realtà, la sua perizia (12 mila pagine, oltre 30 volumi), è un atto d’accusa che Ambrosoli ha messo in piedi pazientemente ricostruendo con l’aiuto di cinque ufficiali della Finanza e cinque giovani collaboratori, le migliaia di operazioni speculative sui cambi, sulle materie prime, sui prestiti a società di comodo che il gruppo Sindona aveva messo in piedi durante la sua parabola. Ambrosoli ha dovuto partire praticamente da zero perché, come ha scritto nella sua relazione, di cui Panorama è in possesso, «tutti i documenti erano stati abilmente sottratti prima della messa in liquidazione della banca». I banchieri svizzeri, ex-soci in affari di Sindona, sabotavano il suo lavoro, negando ogni collaborazione: per questo era stato costretto a presentare ai giudici la prima parte della relazione solo nel febbraio 1977, dopo due anni di indagine, perché come lui stesso aveva tenuto a chiarire «non era stato facile ottenere dalle banche estere la documentazione necessaria per ricostruire le varie operazioni».
Nonostante questi ostacoli Ambrosoli era riuscito a raccogliere e a spiegare in dettaglio come la Bpi, volume di affari 2 mila miliardi, era
stata portata a un ammontare di crediti inesigibili di 269,71 milioni di dollari (230 miliardi circa).
Ambrosoli aveva elencato tutte le società dai nomi misteriosi, esotici che servivano per trasferire all’estero illecitamente i quattrini di molti ignari clienti della banca. Un quadro intricato che lo aveva costretto a disegnare una mappa dei cinque continenti sui cui erano sparse le società sindoniane, arricchita mese per mese da nuove caselle. Ambrosoli aveva smascherato tutti gli altri personaggi coinvolti nel crack: con minuziosa precisione aveva elencato per esempio quante volte ciascuno degli amici e degli uomini cresciuti all’ombra di Sindona avevano coperto il finanziere con la propria firma: «Novantasei firme di Clerici, cinquantadue di Pavese, quarantanove di Bordoni, quarantaquattro di Pontello, trentaquattro di Olivieri...».
Si era anche fatto un’idea precisa sul tabulato contenente i 500 «nomi che scottano», l’elenco dei grandi esportatori di valuta che avevano acceso conti presso la banca svizzera Finabank, del gruppo Sindona. Pensava, come aveva suggerito a Panorama, che tutti i soldi esportati fossero passati per un unico canale, forse una banca romana legata al Vaticano. E che un’indagine sui conti correnti di alcuni agenti di cambio della stessa città avrebbe potuto forse fornire illuminanti spiegazioni.
Testamento. Nella sua metodicità e precisione, Ambrosoli si era anche cautelato fornendo subito ai magistrati le pezze d’appoggio che man mano veniva acquisendo nella sua ricerca: «Tutti i documenti originali dei fatti illustrati in questa relazione (quella al giudice istruttore, ndr) e le fotocopie di quelli di cui non sono stati reperiti gli originali sono a disposizione dei giudici e custoditi presso gli uffici della banca. Poiché molti documenti risultano scritti in lingua estera si è provveduto a traduzioni che verranno trasmesse al giudice istruttore».
Questa precauzione oggi assume il valore di un testamento e dimostra come Ambrosoli temesse che le carte dell’affare Sindona potessero sparire in circostanze come quella che nei giorni scorsi aveva provocato il temporaneo «smarrimento» dei documenti necessari per l’estradizione di Sindona dagli Stati Uniti.
L’immensa mole di lavoro già svolto e le cautele usate nel mettere al sicuro i risultati sembrano dunque confermare l’ipotesi dell’omicidio come punizione: Ambrosoli troppo aveva scoperto e messo a disposizione dei magistrati. Quindi per questo andava eliminato, da parte di chiunque avesse ragione di temere la pubblicazione dei nomi e dei fatti dello scandalo, con una vendetta consumata con lo stile mafioso del sasso in bocca. Ambrosoli stesso, come aveva ribadito a Panorama pochi giorni prima di morire, e come conferma anche il giudice Viola, era convinto di avere già svolto la parte chiave della sua ricerca per incastrare i responsabili del più grande crack finanziario del secolo.
Una morte inutile per i suoi assassini, allora? Niente affatto. Ambrosoli aveva ancora molto materiale da analizzare e mettere in ordine: per esempio i documenti di tutte le operazioni di Borsa delle società dell’ex-impero Sindona, un’altra miniera di nomi che solo ora incominciavano a uscire dall’ombra. Poteva ancora rendere ai giudici americani preziose testimonianze (l’11 settembre era atteso al tribunale di New York come testimone contro Sindona nel processo per il fallimento della banca Franklin). Ma soprattutto, con la morte di Ambrosoli, è scomparso l’unico nome capace di orientarsi nel groviglio della sofisticata contabilità sindoniana. L’unico in grado di permettere ai giudici italiani di chiudere finalmente l’istruttoria e celebrare il processo. Sono passati già quasi sei anni dal crack, Quanti ne occorreranno ancora?