La Stampa, 4 settembre 2009
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Così Brando seduceva i giornalisti
Il fascino, il sarcasmo, il gusto di scardinare il meccanismo tradizionale dell’intervista per trasformarlo in un incontro umano carico di sorprese. E’ il 1965 e Marlon Brando, giacca, cravatta, tono scanzonato, riceve, uno dietro l’altro, nell’Hotel Vanderbilt di New York, i giornalisti tv invitati per il lancio di Morituri, il film di Bernhard Wicki in cui interpreta un esule antinazista infiltrato su una nave tedesca con il compito di sabotare un trasporto d’armi. La pellicola non è un capolavoro, la maratona è organizzata per promuoverla, ma il divo non ha nessuna voglia di prestarsi a inutili dissertazioni. Preferisce invece concentrarsi sui suoi interlocutori e metterne in luce, con un sorriso, una battuta, una domanda fuori dai canoni, tutta la sconcertante banalità. A filmare la serie di piccoli match ci sono i fratelli Albert e David Maysles, il risultato è un documentario di 29 minuti, Meet Marlon Brando (in programma in questi giorni al Festival dei Popoli di Firenze), che racconta l’attore meglio di qualunque volume biografico. Nei faccia a faccia con i cronisti vengono fuori pensieri, passioni, attitudini e divertimenti di una fra le stelle più anticonformiste e imprevedibili di Hollywood.
C’è il Brando seduttore impenitente, quello che mette in imbarazzo la cronista giovane e molto carina dicendole che spera di rivederla presto a Chicago. Lei gli domanda che cosa fa nel tempo libero e lui risponde «guardo lei». C’il Brando sprezzante con l’intervistatrice che fa complimenti a scatola chiusa. «E’ uno spettacolo bellissimo», annuncia la signora riferendosi al film in uscita. Lui la interrompe: «Perchè, lo ha già visto?». La risposta è negativa, l’attore incalza: «Ma allora come fa a saperlo?». C’è il Brando giocherellone che si mette a parlare in tedesco come il personaggio di Morituri e smonta il giornalista che sta per partire con le domande, chiedendogli «lei si mangia le unghie?». C’è il Brando sincero che, interrogato sulla possibilità di tornare a recitare in un musical, confessa «io non so cantare», salvo poi intonare per gioco «your eyes are the eyes of a woman in love», il celebre pezzo (cantato in play-back) in «Bulli e pupe». A tratti, e mai per caso, ma solo perchè in quel momento il divo ha deciso di parlarne, vengono fuori gli argomenti che gli stanno a cuore. Prima di tutto la questione degli indiani d’America. Qualcuno vuol sapere quali sono i prossimi progetti e Brando coglie la palla al balzo: «Non so che cosa ci sia nel mio futuro, non sono un astrologo, ed è difficile fare previsioni. Ci sono, però, molte cose che mi piacerebbe fare. La gente ha scarsissime informazioni sulla condizione degli indiani nel nostro Paese, lei per esempio sapeva che il loro tasso di mortalità infantile è il più alto rispetto a quello di tutte le altre etnie presenti negli Stati Uniti? Ecco, sarei contento di poter fare qualcosa in questo senso».
C’è poi la riflessione sul proprio mestiere: «Noi attori siamo dei creatori di psicologie, in tutti i personaggi che interpretiamo c’è sempre un riflesso di noi stessi». E sull’educazione, «basata troppo sul concetto del fare soldi e per niente sulla preparazioine degli individui alla vita, alle emozioni che dovranno affrontare». E infine sul rapporto tra stampa e gente famosa, argomento su cui Brando doveva, già allora, aver molto riflettuto. Forse perchè anche in quell’incessante gioco a rimpiattino c’era la prima radice del suo malessere, il seme di una rivolta contro i media che l’avrebbe spinto a vivere in totale solitudine la propria tormentata vecchiaia: «La gente non capisce che le notizie sono denaro, se un giornale scrive qualcosa su Liz Taylor e Richard Burton, vera o falsa che sia, le vendite aumenteranno...Se poi si sceglie di non collaborare, di non permettere che la tua vita privata venga violata, allora le cose diventano ancora più complicate». «La situazione iraniana e quella palestinese, l’antisemitismo e il razzismo, il degrado irrimediabile dell’ambiente» sono, nelle parole del direttore Luciano Barisone, i temi al centro della cinquantesima edizione del «Festival dei Popoli», in programma a Firenze fino a sabato. Punto di forza della rassegna, il genere del documentario che sta vivendo, negli ultimi anni, un grande rilancio, basti pensare ai successi di Michael Moore. Una tendenza che ha contagiato anche l’Italia, presente al Festival con ben 7 titoli tra cui «GenovaTripoli», cronaca della vita e del lavoro dell’equipaggio di una nave container di origine russa, «In amabile azzurro», ritratto di una Calabria sospesa tra desolazione e miti greci, «Grandi speranze» sui giovani imprenditori italiani in Cina.