24 novembre 2014
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Biografia di Marlon Brando
Omaha (Stati Uniti) 3 aprile 1924, Los Angeles (Stati Uniti) 1 luglio 2004. Attore.
• «Divo dalla vita dissipata, assediata da donne e da figli legittimi e illegittimi, con improvvise cadute nella tragedia, ha avuto una carriera lunga, gloriosa e discontinua. Dai primi lavori come Fronte del porto e Il selvaggio che ne hanno fatto un’icona di Hollywood a commedie mediocri, dalla rinascita con Ultimo tango a Parigi ai fasti di Il padrino, da una serie di comparsate a Apocalypse Now. (...) Sostenitore di cause civili, Brando ha sempre unito a un odio dichiarato verso Hollywood una buona dose di provocazione. rimasto negli annali del cinema il rifiuto dell’Oscar nel 1972 in segno di solidarietà con gli indiani d’America e il rifiuto di consegnare nel 1999 l’Oscar a Elia Kazan che pure era stato il regista che l’aveva formato come attore in teatro e l’aveva reso celebre al cinema in memoria del suo passato di delatore negli anni del maccartismo. Del cinema, che pure gli ha dato tanto, ama dire: "Il cinema uccide l’individuo. Tanti anni buttati via. Mi hanno appesantito fisicamente, mentalmente, spiritualmente”» [Roberto Rombi, Rep. 26/4/2001].
• «Sin da quando, oltre mezzo secolo fa, si è imposto a Broadway con Un tram chiamato desiderio, il nome di Brando è stato sempre seguito dal commento ”il più grande attore della sua generazione”: per la sua capacità di trasformarsi e di diventare personaggio; per i suoi lineamenti angelici; per l’energia dei suoi occhi. C’era un qualcosa di speciale in lui, riaffermata film dopo film in Il selvaggio piuttosto che ne Il padrino o in Apocalypse now. Brando però non ha mai accettato il gioco hollywoodiano della fama, scegliendo di andare a vivere per una ventina di anni in un atollo polinesiano, diventando agli occhi dell’opinione pubblica non solo un volontario recluso, ma un personaggio tragico: nel giro di pochi anni, ha visto prima suo figlio Christian uccidere il fidanzato dell’altra sua figlia Cheyenne e poi ha appreso che Cheyenne si era impiccata in Polinesia. Nonostante quest’immagine, Brando però oltre che i suoi due mastini napoletani frequenta anche una ristretta cerchia di amici. (...) Continua a lavorare, scegliendo quasi sempre progetti minori, divertendosi a provocare ed a fare scherzi. Quando stava girando The Freshman, per esempio, ha mandato in tilt il regista Andrew Bergman, dicendogli che stava chiamando da un aereo diretto a Tahiti e che non sarebbe più tornato sul set. Per essere più credibile, ha pure usato come sottofondo il rumore di un jet. Sul set di Don Juan De Marcos si è invece inventato un capriccio, rispondendo a un ritardo di Faye Dunaway macchiandosi la camicia con il ketchup e rinviando così la produzione. Con The Score, a Montreal, si comporta allo stesso modo, ma non è vero che girava nudo dalla cintola in giù per non farsi riprendere a figura intera (come avevano scritto i giornali), pare abbia sempre indossato le mutande. (...) Ultimamente va spesso a visitare Jackson a Neverland, il suo ranch. Un’amicizia recente e che fa venire in mente un vecchio motto: Dio li fa e poi li accoppia» [Lorenzo Soria, Sta 16/7/2001].
• «Sono un uomo calvo, un fallimento di mezza età... ho provato tutto, andare con le donne, bere e lavorare. Niente di tutto ciò significa qualcosa» [Sta 22/8/2001].
• «"Sofia Coppola ha girato Lost in translation in 27 giorni. A suo padre quello stesso tempo bastava appena per svegliare Marlon Brando, e ci riusciva con tre piccole parole: ‘Key lime pie’, cioè la prelibata torta al limone cucinata nelle isole della Florida”. Solo così l’ex selvaggio è riapparso sul palco degli Oscar, il 29 febbraio 2004: con una battuta svergognata del presentatore Billy Crystal. Dunque l’America sfotte Brando? (...) diventato un tale fenomeno da baraccone, che merita un po’ di spazio solo per riderci sopra? (...) Se Marlon Brando volesse davvero le prime pagine dei giornali, dovrebbe conquistarle con qualcosa proiettato nel presente, tipo l’Henry Fonda di Sul lago dorato. Ma non è roba per lui e forse non gli interessa nemmeno, dopo aver flirtato per anni con L’autunno del patriarca di Garcia Marquez. (...) L’avvocato David Seeley smentisce che Marlon abbia finito i quattrini, ma comunque lui è tornato a Los Angels da quando la figlia Cheyenne si tolse la vita proprio a Tetiaroa, dopo che il fratello Christian le aveva ammazzato il marito Dag Drollet. O forse era stato il padre? Una vita come un film, insomma, che gli americani faticano a seguire ancora, con tutte le altre celebrità matte a disposizione. Tipo Courtney Love, ad esempio, che si è inventata di essere la nipote di Brando, presunto padre naturale di sua madre Linda Carroll. Dire che gli Usa hanno dimenticato il loro mito, però, sarebbe ingiusto. Forse è solo che hanno sentito già tutto su di lui. L’ultima biografia, intitolata Marlon Brando e scritta dal critico del ”New York Times” David Thomson, è uscita nel 2003, in un mercato che evidentemente assorbe ancora libri del genere dopo la doppia sfida del 1994, quando proprio l’ex selvaggio firmò la storia della sua vita chiamandola The songs my mother taught me, per contrastare quella non autorizzata e pruriginosa pubblicata da Peter Manso. Il settimanale ”Time”, poi, ha inscritto per sempre Brando nella lista delle cento persone più influenti del secolo scorso, insieme a pochissimi attori come Charlie Chaplin. I suoi due Oscar, infatti, rimangono nella storia, compreso quello che rifiutò nel 1972 per Il padrino, mandando invece sul palco l’indiano Sasheen Littlefeather a criticare le ingiustizie commesse dagli americani contro i pellerossa. Proprio Marlon, del resto, ha scritto così nella propria autobiografia: ”Io ho sempre considerato la mia vita un affare privato, che non riguardava nessuno oltre la mia famiglia e coloro che amo. Fatta eccezione per le questioni politiche e sociali che hanno suscitato in me il desiderio di parlare, mi sono impegnato molto nel corso della mia esistenza, per il bene dei miei figli e mio, a restare in silenzio”» (Paolo Mastrolilli, ”La Stampa” 1/4/2004). «Quando apparve la prima volta sui nostri schermi, con la sua maglietta tanto stretta sul bel torace del ragazzo ferito in guerra (il film era Uomini di Fred Zinnemann, l’anno di uscita il 1950), Marlon Brando per noi fu da subito l’America. Un corpo lavorato in palestra, un volto perfetto (il naso rotto in uno scontro di boxe rendeva sostenibile tanta bellezza, disse un’amica), un modo di recitare appreso in scuole che insegnavano a rivivere con il corpo i più interni turbamenti. Sembrava un essere venuto da altri mondi. Intanto per quella maglietta, che l’anno dopo era bianca nella celebre foto di scena di Un tram che si chiama desiderio. Da noi, all’epoca, la parola T-shirt non la conosceva nessuno. E quel tipo di indumento non ci apparteneva. Per gli italiani del dopoguerra, neorealisti poveri ma belli, il segno distintivo era la canottiera. Otto anni prima, in Ossessione, Visconti aveva fotografato il più bello del cinema italiano, Massimo Girotti, con una canottiera dalle spalline un po’ larghe, seduto su un letto sfatto della Bassa Ferrarese: mettete a confronto Girotti e Brando e capirete la differenza. Fra il ”50 e il ”54, in una progressione impressionante di film coronata dall’Oscar (Un tram che si chiama desiderio, ”51; Viva Zapata , ”52; Giulio Cesare, ”53; Il selvaggio e Fronte del porto, ”54), Brando codifica l’immagine di un mito. Di cui, timidamente, noi che stavamo di qua dall’Oceano cominciammo ad appropriarci partendo dai dettagli. Blue jeans, giubbotto di pelle, giaccone di lana a quadri; e la maglietta bianca con le mezze maniche, ”a forma di T”: beni preziosi che si trovavano nei mercatini americani di Genova, Livorno, Napoli. Elvis Presley e il rock and roll non c’erano ancora, ma bastavano quei primi segnali a far credere di star dentro al sogno americano. Almeno un po’. Magari pensando di essere anche noi di Kansas City, come faceva Nando Moriconi ovvero Alberto Sordi americano a Roma, o Luciano Bianciardi, intellettuale arrabbiato in fuga da Grosseto per andare a scoprire la vita agra di Milano. Di Brando, all’epoca, si sapeva poco. Niente della madre Dodie, attrice dilettante e alcolista, morta nel ”54. Qualcosa del suo apprendistato teatrale negli anni ”40 a New York, a scuola da Stella Adler e da Erwin Piscator, interamente coinvolto in un mix culturale in cui interagivano il metodo Stanislavskij, l’espressionismo tedesco, l’attivismo filocomunista, la tradizione jiddish. Nessuno di noi, ovviamente, l’aveva visto entrare in scena a New York, nel dicembre del ”47, in Un tram che si chiama desiderio: e fu un tale lampo di luce che l’autore del dramma, Tennessee Williams, si dimenticò di riprenderlo per la libertà con cui cambiava le sue battute. Da noi Brando era tutto in quell’immagine di selvaggio con l’anima straziata, di giovane bruciato che non vuole smettere di cercare il paradiso, di angelo caduto sulle banchine del porto di New York. Con i jeans, la maglietta, il chiodo di pelle nera. In America era già il modello da imitare, James Dean bruciò la sua giovinezza nel tentativo di diventare come lui mentre Paul Newman ripercorreva, una tappa dopo l’altra, la sua ascesa alla celebrità: scuola di recitazione, jeans e T-shirt, una luce infelice nei grandi occhi chiari. Da noi, imitarlo era molto più difficile. Di certo però la sua apparizione cancellò i precedenti modelli, quelli degli esistenzialisti parigini, Gérard Philippe e Juliette Gréco. Per l’Italia degli anni ”50 Brando fu la riscoperta dell’America. Di un’America che ancora non ci ha lasciato, come c’insegna Ligabue che già nel suo album di esordio (1990) cantava: ”E Marlon Brando è sempre lui... Un po’ più avanti con negli occhi tanto film, Terry Malloy infine vince lui. Lui le dice, come vedi, siamo sempre qui e non è obbligatorio essere eroi”. Ovvero, il Marlon di Fronte del porto non ce lo dimenticheremo più. Altri miti grandi così non li abbiamo più avuti (uno in realtà sì, ma era l’altra faccia dell’America di Brando: Marilyn Monroe). Tutto quello che è venuto dopo, aveva il sapore della replica, viveva con minore intensità. Poco importa se già dalla metà degli anni ”50 Brando faceva scempio della sua grandezza con una serie di film improbabili (Desirée, La casa da tè della luna d’agosto, Sayonara), ingaggiando una guerra contro Hollywood di cui pagava sempre prezzi esorbitanti. La meglio gioventù dell’Italia dei decenni Sessanta, Settanta, Ottanta continuava a riferirsi al Brando selvaggio degli inizi. Con l’eterno rimpianto di non essere mai stati come lui, tutti a piangerci addosso nei jeans troppo stretti, nelle T-shirt mai così belle, nei giubbotti che cadevano un po’ sbilenchi. Ignaro, forse, di questa lontana legione di devoti, Brando si curava poco dell’Italia. E i suoi incontri con qualcuno dei nostri sono sempre stati traumatici: con Anna Magnani sul set di Pelle di serpente (1959) ci fu una tensione pazzesca, con Brando che insultava pubblicamente Nannarella. Stesso comportamento con Sophia Loren in La contessa di Hong Kong, l’ultimo infelice film di Chaplin (1967). Due anni dopo, le riprese di Queimada rischiarono più volte di interrompersi per gli scontri fra l’attore e Gillo Pontecorvo. Poi fu la volta di Bernardo Bertolucci, e dell’Ultimo tango a Parigi (1972, lo stesso anno del Padrino), e fu una specie di regolamento di conti fra l’italiano che aveva vissuto nell’idolatria di Brando e l’americano che continuava a chiedersi che ci faccio qui. Troppa psicoanalisi, troppa cultura, troppe parole difficili lamentava anni più tardi l’attore che non aveva voluto farsi ritrarre interamente nudo, che aveva rifiutato di far sesso vero con Maria Schneider, che pensava che il regista fosse in un terribile stato di confusione mentale. Fu l’esperienza più imbarazzante della vita, secondo Brando, una sorta di lunga catartica seduta analitica, secondo Bertolucci. Quell’italiano, poeta figlio di poeta, era troppo complicato per lui. Almeno per l’immagine che degli italians Brando poteva avere. E di cui testimonia la figura di Don Vito Corleone nel film di Coppola; o, anni dopo (1990), quella del vecchio mafioso nel Boss e la matricola, che se ne sta seduto in un caffè di Little Italy sotto un ritratto di Mussolini. Eppure, nelle cose che Bertolucci diceva a Brando durante le riprese, nonostante il frasario più consono al lettino freudiano che non al set cinematografico (’sei l’incarnazione del mio uccello, sei il suo simbolo”), c’era la confessione più sincera e appassionata di una lunga devozione. Una devozione collettiva, quella di tutti noi italiani che avevamo trasferito nell’immagine di Marlon Brando, nel suo corpo di divo la perfetta realizzazione di tutti i nostri desideri. Di come avremmo voluto essere, di come non saremmo mai diventati» (Ranieri Polese, ”Corriere della Sera” 28/3/2004). «Sono tutti d’accordo, o quasi. Marlon Brando è stato il più grande, il più straordinario, il più bello. (...) è stato anche il più tragico e il più infelice, di quella infelicità che nasce da un incontro malato tra la fortuna, il successo e il senso di inadeguatezza a quella stessa fortuna che ti ha nutrito la vita, la fama, la carriera. (...) un percorso fortunato e leggendario che è finito nella tragedia e nella distruzione - per arroganza, bisogno di denaro, incuranza - di un mito professionale. La fortuna di Marlon Brando è nata nel corso di una singola notte, quella del 3 dicembre 1947, quando il bel ragazzo dell’Illinois, ventitre anni, ribelle a ogni disciplina, compresa quella militare, approdato a New York per fare l’attore, comparve sul palcoscenico dell’Ethel Barrymore Theatre. Trasudava rabbia e testosterone, dicono i testimoni, e portava una canottiera - quella di Kowalski - che divenne un istantaneo oggetto del desiderio. Il giorno dopo i giornali decretarono due cose: che era nato un attore e che quell’attore, il protagonista di Un tram che si chiama desiderio, era la presenza più sexy in circolazione in America. Da quel giorno del 1947 Marlon Brando, il prodotto della rabbia di vivere e della scuola di Strasberg, ha inaugurato una carriera strepitosa. Bravo? Bravissimo. A volte eccessivo, istrionico, esibito - forse anche per il valore aggiunto della sua bellezza. A volte semplicemente strepitoso, sottile, sottotono, nonostante il suo fisico. Ancora più bravo quando riusciva a farlo dimenticare, quel fisico, come nella sua straordinaria interpretazione di Il padrino. L’ambiguità è il tema fondamentale in almeno quattro film fondamentali della sua storia. In Viva Zapata!, dove il sogno rivoluzionario è condannato per l’inevitabile degenerazione dei suoi capi. In Fronte del porto, che finisce per accomunare sindacalismo e violenza. In Queimada, dove, ancora una volta, la rivoluzione (o almeno, quella messa in moto dal suo personaggio) è strumentale a ben altri giochi di potere. E naturalmente ne Il padrino. Ma a questi titoli - e a Uomini, a Il selvaggio, con quel ”chiodo” di pelle nera che diventerà il simbolo di una generazione di ribelli, a Un tram che si chiama desiderio, a Giulio Cesare, a I giovani leoni - Brando affiancherà anche titoli di una leggerezza inadatta a lui, come Bulli e pupe o Sayonara, fino a perdersi in una serie di film di poco peso, fino a scomparire dall’orizzonte dello schermo di cui è rimasto una leggenda. Sempre, però, capace di rinascere. Nel 1972, quando fece il primo giorno di lavorazione nel Padrino senza che nessuno, grazie al trucco che gli gonfiava le guance, lo riconoscesse. Nel 1973, quando, avvolto in un lungo ed elegantemente sdrucito cappotto di cammello, bianco di capelli e segnato in faccia ma bellissimo, comparve sullo schermo di Ultimo tango a Parigi. Al Padrino andò anche il secondo Oscar della sua carriera, ma Brando spedì a riceverlo un’indiana in costume che fece per lui un discorso sulle condizioni dei native Americans (quanto al primo Oscar, quello per l’ambiguo personaggio di Mollo in Fronte del porto, si era pentito di averlo accettato, e conseguentemente rifiutò (...) di consegnare a Kazan l’Oscar alla carriera). Poi, nella vita di Brando, qualcosa deve essersi rotto nell’equilibrio tra un lavoro fatto, diceva lui, perché ”non ho il coraggio morale di rifiutare i soldi” e una vita vissuta nevroticamente con donne a ripetizione (e qualcuno dice anche uomini), mogli in sequenza, dodici figli tra legittimi e non sparsi per il mondo. Brando si ritira a Tetiaroa, un’isola del Pacifico dove ha anche costruito un paio di villaggi turistici di lusso. Vede il cinema con sdegno. Accumula disagio e peso. E accetta di fare i suoi pochi minuti di Apocalypse now per una cifra esorbitante. E’ l’ultima sua grande interpretazione. Dal profondo della montagna di carne in cui ha nascosto la sua bellezza, accumula parti sempre più assurde, cammei raccapriccianti, ruoli senza senso - e denaro. Un tragico giorno suo figlio Christian uccide il marito della sorella. Cheyenne si impicca. Lui, il difensore delle cause difficili, se ne esce in televisione con una battuta sugli ebrei degna di Haider. Vive solo coi suoi fantasmi in una casa gigantesca. Sopravvive a se stesso. E’ veramente l’autunno del patriarca, è veramente ”l’orrore” che gridava il colonnello Kurz, è veramente una tragedia americana» (Irene Bignardi, ”la Repubblica” 3/4/2004).