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 2014  novembre 24 Lunedì calendario

Elogio dello zero, primo elemento della lista dei numeri interi, in realtà l’ultimo arrivato sulla scena. Ecco il volto nichilista della matematica

Lo zero, primo elemento della lista dei numeri interi, è in realtà l’ultimo arrivato sulla scena. Gli uomini avevano già effettuato difficili calcoli aritmetici, risolto complicate equazioni algebriche e dimostrato profondi teoremi geometrici per secoli e millenni, prima che gli Indiani e i Maya introducessero in matematica un analogo di concetti quali il nulla, l’assenza, il silenzio, il buio, il non-essere e il vuoto, che erano già stati considerati, più o meno timidamente, in altri campi.
In letteratura, lo zero aveva fatto la sua prima apparizione nell’episodio dei Ciclopi dell’ Odissea, quando Ulisse dichiarò a Polifemo di chiamarsi Nessuno. Molti altri personaggi in seguito ebbero nomi analoghi, dal capitano Nemo di Jules Verne (1870) al Nowhere man dei Beatles (1965).
Se poi si passa alle metafore letterarie del nulla, il discorso si allarga. Una quasi scontata è l’assenza, e le opere che parlano di qualcuno, o qualcosa, che non c’è, o non arriva, abbondano: da Aspettando Godot di Samuel Beckett (1952) a La scomparsa di Georges Perec (1969). Altrettanto immediata è la metafora dell’ombra, che in molte storie si stacca dal rispettivo corpo e acquista vita propria, come per il Casella dantesco e Peter Pan. C’è poi la metafora del buco, che ha vari archetipi naturali nell’essere umano. La bocca spalancata a voragine, ad esempio, che diede il nome al Caos nella Teogonia di Esiodo (—700 circa). O la vagina, che gli elisabettiani chiamavano in codice “nulla”: di qui l’ammiccante titolo Molto rumore per nulla di William Shakespeare (1599). Se assenze, ombre e buchi alludono più o meno indirettamente al nulla, la sua realizzazione letterale è il silenzio, a cui hanno incitato, parlando, i mistici di ogni tempo, da Lao Tze a Ludwig Wittgenstein. Il silenzio può anche iniziare un’opera, come la “pausa accentata” che precede il “bussare del destino” della Quinta sinfonia di Ludwig van Beethoven (1808). La più nota composizione silente è invece 4’ 3-3” di John Cage (1952), articolata in tre movimenti di 30”, 2’23” e 1’40”: un silenzio di 273 secondi in tutto, che richiamano esplicitamente la temperatura di – 273° dello zero assoluto.
Una delle più note metafore concettuali del nulla è il nichilismo: un termine inizialmente introdotto da Ivan Turgenev in Padri e figli ( 1862), per indicare quel radicale rifiuto dei valori stabiliti che caratterizza il conflitto generazionale. Nell’Ottocento il nichilismo raggiunse la sua massima espressione artistica nei romanzi filosofici di Fëdor Dostoevskij, incarnandosi in personaggi quali Raskolnikov di Delitto e castigo ( 1866), Stavrogin dei Demoni (1873), e Ivan dei Fratelli Karamazov (1879). Nel Novecento assunse poi varie metamorfosi, dalla “generazione perduta” di Gertrude Stein alla “gioventù bruciata” di James Dean. E culminò infine nella letteratura esistenzialista francese di metà secolo, da La nausea di Jean-Paul Sartre (1938) a Lo straniero di Albert Camus (1942). Anche la filosofia ha una sua specifica versione di nichilismo, che consiste nell’affermazione di quel genere di nulla che è il non-essere. A farlo venire in essere fu Parmenide, che inventò nel secolo – VI uno dei primi paradossi della storia: quello secondo cui il non-essere non può essere niente, per sua natura, ma allo stesso tempo è qualcosa, cioè appunto il non-essere. In seguito, più o meno negli stessi anni di Turgenev e Dostoevskij, Friedrich Nietzsche iniziò nel Crepuscolo degli idoli (1888) una rilettura della storia della filosofia post-kantiana. E la interpretò come una progressiva affermazione del nichilismo, nel senso della scoperta della mancanza di senso e del carattere caotico del mondo.
Nella fisica il nulla può essere inteso in due sensi complementari: negativamente, come assenza della materia, e positivamente, come presenza del vuoto. La fisica moderna ha però introdotto un concetto di vuoto energetico più generale, definito come lo stato di energia minima di un campo. Nel 1929 Paul Dirac immaginò il vuoto quantistico come costituito da un mare di elettroni, in tutti i possibili stati di energia negativa. Se uno di questi elettroni lascia il suo posto a causa di un aumento di energia, il buco da esso lasciato viene percepito come un “antielettrone”, con la stessa massa dell’elettrone, ma carica opposta. Questa nuova particella, chiamata positrone, fu poi scoperta nel 1932. In parte il ritardo per l’introduzione dello zero in matematica è derivato dal rifiuto del nonessere e del vuoto nel pensiero filosofico e scientifico. Ma, una volta introdotto, esso ha acquistato un’ovvia valenza simbolica che è poi stata sfruttata a fondo, letteralmente e metaforicamente. Basta pensare a espressioni come “zero via zero”, “zero assoluto”, “sentirsi uno zero”. Il più noto uso di quest’ultima metafora si trova forse nel Re Lear di Shakespeare (1606), quando il Buffone apostrofa il re ormai senza corona, dicendogli: «Ora sei uno zero senza valore. Io sono meglio di te: sono un buffone, ma tu non sei niente».
In matematica esiste anche l’insieme vuoto, che non contiene nessun elemento. L’insieme vuoto è l’analogo di una scatola vuota. Ma mentre di scatole vuote ce ne sono molte, perché nella vita il contenitore conta, di insiemi vuoti ce n’è uno solo, perché in matematica conta solo il contenuto. E come la geometria degli antichi è costruita a partire dai punti, così la teoria degli insiemi dei moderni si costruisce a partire dall’insieme vuoto. Essa si riduce dunque letteralmente a un edificio di pure forme, che si dissolve in ultima analisi nel nulla: una visione, questa, molto vicina alla shunyata buddhista, per la quale le cose non sono solo contenitori vuoti, ma sono vuote apparenze di contenitori. Allo stesso modo, si rimane con niente in mano se si cerca l’essenza della cipolla pelandola, come nel Peer Gynt di Henrik Ibsen (1867), o in Vestire gli ignudi di Pirandello (1922). O se si cerca l’essenza del carciofo sfogliandolo, come nelle Ricerche filosofiche di Wittgenstein (1953).