la Repubblica, 24 novembre 2014
Per scoprire gli autori di foto e video incriminati ora c’è la balistica digitale una nuova tecnica. Il programma è realizzato dal team italiano di ricercatori e poliziotti. «Ogni immagine identificata dall’impulso dell’apparecchio»
L’ultimo diaframma del forensics, la scienza applicata alla ricerca della prova nel processo penale, è caduto. Anche le foto e i video digitali hanno un’impronta, che li rende riconoscibili e unici da ogni altro fotogramma. E quell’impronta può essere ora associata, «oltre ogni ragionevole dubbio», alla macchina fotografica o allo camera dello smartphone che quell’immagine ha scattato o ripreso.
Una foto o un footage e una macchina. Una traccia che li lega indissolubilmente. Unica al mondo tra gli “n” apparecchi prodotti e le “n” immagini che catturano (solo nel 2013, è stato venduto 1 miliardo e 100 milioni di macchine fotografiche e sono state caricate 250 miliardi di foto su Facebook). Esattamente come un proiettile esploso da un’arma. Come la traccia lasciata su una superficie da un polpastrello. Come un frammento di Dna nella traccia biologica. Roba da stropicciarsi gli occhi. Che – per dire della ricaduta immediata e più significativa – cambierà per sempre la caccia a un crimine globale come la pedo-pornografia, dove la fotografia, i video, sono corpi del reato. Ma che ha potenzialità altrettanto facilmente immaginabili nell’ intelligence e nelle attività anti-terrorismo, dove, tirare il filo di che cosa è stato scattato o filmato consentirà di arrivare a chi ha pigiato l’otturatore.
Ci lavoravano da oltre un lustro i laboratori della National security agency statunitense, a partire dall’intuizione e dal lavoro di ricerca un professore del Politecnico di New York, l’egiziano Nasir Memon e della professoressa americana J. Fridrick. Ne è venuto a capo un team italiano di ricerca che, «a costo zero» (tolte qualche decina di migliaia di euro per acquistare set di macchine fotografiche reflex e compatte) ha messo insieme le teste e le intuizioni del Dipartimento di Informatica dell’Università di Salerno, dell’Università di Roma e della Seconda Divisione della Polizia postale. E bisogna dunque vederli ora, “sbirri” e ingegneri, uomini e donne, seduti intorno a un tavolo circolare della scuola superiore di Pubblica sicurezza, sorridere di tutto il legittimo orgoglio “meridionale” di chi potrà dire che dalla Piana del Sele non arrivano solo le “mozzarelle di bufala più buone del mondo”.
È un “meridionale” anche Carlo Solimene, direttore della seconda divisione della Polizia Postale e ricorda l’incipit di questa avventura visionaria con la semplicità di chi, sei anni fa, quando tutto è cominciato, decise di partire da una serie di domande impossibili: «Ci riusciamo a fare della “balistica digitale”? Insomma, se ho una foto, riusciamo a sapere con certezza quale macchina l’ha scattata? O, almeno, se ho 100 foto, riesco a sapere quante di quelle foto sono state scattate dalla stessa macchina?».
Giuseppe Cattaneo, professore del Dipartimento di informatica dell’Università di Salerno, la racconta così: «Bisogna partire da una premessa. L’americana Fridrick era riuscita a stabilire che il sensore ottico di ogni macchina fotografica digitale produce il suo “rumore”. Unico e caratteristico, anche tra macchine di identico modello e marca. Il “rumore” è un impulso prodotto dal sensore a causa della disomogeneità dei wafer di silicio utilizzati al momento della costruzione del chip. E a causa di questa disomogeneità, i pixel investiti dalla stessa luce producono segnali elettrici leggermente diversi. Due foto di un identico soggetto scattate da due macchine fotografiche nello stesso istante e dunque nelle stesse condizioni anche di prospettiva che pure all’occhio umano appaiono identiche, in realtà sono diverse. Perché le imperfezioni dei pixel avranno reagito in modo diverso alla luce. Bene. Noi siamo partiti da qui. Avevamo bisogno di un filtro che portasse in evidenza nell’immagine le imperfezioni dei pixel e di un algoritmo e di un software che consentisse di trasformare tutto questo in una tecnica da applicare a grandi numeri di immagini e dunque di dare risposta alla domanda chiave. Date “n” foto e “n” macchine fotografiche come associare le une alle altre?».
Già, «l’algoritmo»... Cattaneo indica Gianluca Roscigno, 27 anni, phd di informatica all’Università di Salerno e una faccia da Henry Potter. E con lui, il professor Alfredo De Santis e il ricercatore Aniello Castiglione, gli altri maverick del progetto. È un fatto che, nell’estate del 2009, la ricerca parta con il nome di battesimo di “CHI” ( Camera Hardware Identification ). Nei laboratori della polizia postale vedono la luce tra diverse versioni del software e altrettanti test di laboratorio. 45 fotocamere, talvolta di identica marca e modello, fissano in contesti asettici, stagni rispetto alla presenza dell’uomo o di ogni altro possibile agente di disturbo, 4.584 immagini. Con un risultato: circa 3 immagini su 4 vengono correttamente associate alla specifica fotocamera che le ha scattate. Il 72,6% del campione. Dove lo scarto è dato soltanto da eventuali importanti manipolazioni della foto rispetto all’originale. Perché queste consentono di rendere difficile estrarre l’impronta.
Il progetto è stato presentato in questi giorni dal nostro Paese all’Unione europea con la richiesta di un finanziamento di 700 mila euro che ne consenta l’implementazione e la diffusione oggi in Italia e da domani su una scala «che – chiosa Solimene – può diventare decisiva quanto più non sarà soltanto di un singolo Paese, ma metterà insieme database fotografici e database delle macchine fotografiche sequestrate in uno spazio geografico importante dalle diverse polizie europee o addirittura di altri continenti. Esattamente come avviene oggi per i database con la raccolta delle impronte digitali dei pregiudicati o nella balistica del piombo, anche in quella digitale più saranno le foto e le macchine da associare, più l’arma che ora abbiamo diventerà cruciale».