la Repubblica, 24 novembre 2014
Trattativa sul nucleare, in Iran i riformisti tifano per un accordo ma l’intesa resta in bilico. Il problema è il braccio di ferro politico tra Obama e Rouhani. Tutto è pronto in vista del ritiro delle sanzioni, nessuno vuol credere che si torni indietro
Gli occhi degli iraniani sono fissi su Vienna. Due futuri opposti si prospettano davanti a loro a seconda che il negoziato internazionale sul programma nucleare iraniano si concluda positivamente o fallisca. Tra poche ore ci sarà il verdetto. Il tempo scade alla mezzanotte di oggi, ma le chance di un accordo si sono drasticamente ridotte negli ultimi giorni tanto che si discute sulla possibilità di estendere i colloqui: «La sola ragione di ottimismo ormai sono le conseguenze disastrose che deriverebbero da un fallimento», dice l’economista Said Leylaz, sostenitore del presidente moderato Rouhani e fino a poche settimane fa certo di una conclusione positiva. Anche i negoziatori vogliono un accordo, al quale invece sono contrarie molte forze non direttamente rappresentate a Vienna: prima di tutto Netanyahu, che anche ieri ha messo in guardia da “un cattivo accordo”. Poi i sauditi, con cui Kerry ha avuto un ulteriore colloquio: il suo omologo principe Al Faisal è arrivato a Vienna e lo ha incontrato a bordo del proprio aereo senza nemmeno scendere a terra. Ultimi ma fondamentali, i repubblicani, determinati a impedire un successo di Obama facendo allo stesso tempo un piacere a Israele.
«In ballo ci sono due numeri, di scarso significato reale, ma grande valore simbolico», dice Leylaz: «Il numero delle centrifughe che l’Iran potrà continuare a operare e quello degli anni nei quali saranno mantenute le restrizioni. Obama deve dimostrare al Congresso di aver eliminato la capacità dell’Iran di arricchire l’uranio, mentre il governo di Rouhani deve dimostrare agli ultraconservatori a Teheran l’esatto contrario. Il problema ormai è solo politico».
Solo poche settimane fa, in occasione dell’anniversario dell’assalto all’ambasciata americana dopo la rivoluzione khomeinista, gli ultraconservatori si erano dati appuntamento sulla via Teleghani, davanti al “covo di spie” (così veniva chiamata l’ambasciata) scandendo «Niente compromessi, nessuna sottomissione all’America». Ma non erano nemmeno un migliaio. Colpa della coincidenza con Ashura, avevano detto, la festa più sacra per gli sciiti, in cui si ricorda il martirio di Hossein a Kerbala. Già da molti anni però le manifestazioni davanti all’ambasciata non sono che un pallido ricordo di quelle oceaniche degli Anni ‘80 e ‘90: in Iran non c’è praticamente nessuno, giovane o vecchio, che non vi abbia partecipato almeno una volta nella vita.
Il paradosso tuttavia è che tutti quei cori di “morte all’America” non hanno influenzato che una piccolissima porzione dei giovani nati dopo la rivoluzione. Le nuove generazioni vedono film americani, ascoltano musica americana e vogliono l’apertura al mondo, dice Ali Vakili, direttore del giornale moderato Ebtekar. Per questo hanno votato Rouhani un anno e mezzo fa. «Oggi anche molti conservatori si rendono conto che nell’isolamento internazionale il Paese non si sviluppa e sono diventati più realisti», dice Valiki. «Vedere l’Iran come una potenza regionale riconosciuta nel mondo è un pensiero condiviso da tutte le correnti politiche della Repubblica islamica». Sul numero di Ebtekar poggiato sulla sua scrivania in prima c’è una foto di Hashemi Rafsanjani, il primo presidente iraniano a cercare, senza riuscirvi, di riallacciare i rapporti con gli Stati Uniti.
Che succederà stasera a Vienna? Nella girandola d’incontri, notizie e smentite che arrivano dalla capitale austriaca, gli iraniani non riescono a immaginare un fallimento. Nel giugno di un anno fa avevano eletto Rouhani fidando nella sua promessa di ristabilire i contatti con il mondo, far rifiorire l’economia del paese e togliere loro quello status di paria, di cittadini di second’ordine nel mondo, che tanto gli pesa. La notizia che Teheran avrebbero proposto di prolungare il negoziato è stata seccamente smentita. E tuttavia, un prolungamento appare qui, in mancanza di un accordo, come la sola via praticabile, a condizione, dicono tutti, che si tratti di un prolungamento breve. Dopo gennaio si profila infatti lo spettro che a Washington il Congresso a maggioranza repubblicana decida nuove e ancora più drastiche sanzioni e tutto ripartirebbe da zero.
Per la gente è difficile credere che le loro speranze vadano ancora una volta deluse: quelle di un’agognata ripresa economica prima di tutto, ma anche quelle di poter contare su un governo moderato. Le chance di Rouhani, tutti ne sono consapevoli, svaniranno nel momento in cui il negoziato nucleare dovesse fallire. A Teheran si respirava da mesi un’aria di attesa. Molte società straniere hanno affittato ufficiali nei grattacieli al centro della città, i giornali continuano a essere pieni di notizie sugli investimenti stranieri che stanno per arrivare. Boeing, Apple e General Electric sono le prime società americane ad aver ripreso i colloqui con gli iraniani. Boeing ha venduto all’Iran mappe e altre pezzi tecnici – era la prima volta da 35 anni. Tutto è pronto in attesa che le sanzioni vengano cancellate e nessuno può credere che si torni indietro. «Resto ottimista, che altro posso fare? La realtà è insostenibile», mi dice un amico ingegnere che ha appena messo su una società di servizi nel campo dell’edilizia con partner italiani.