la Repubblica, 24 novembre 2014
Il Libano è ormai un Paese senza uno Stato, sotto l’assedio dei jihadisti. Non c’è un presidente e il Parlamento ha rinviato le elezioni. Intanto si moltiplicano gli attacchi dell’Isis e di Al Nusra lungo il confine con la Siria. Il Capo di Stato maggiore: «Siamo vicini alla resa»
«Siamo affogati in un abisso di preoccupazioni e in un diluvio di domande sul presente e sul futuro». È con questo stato d’animo al limite della resa che il primo ministro libanese, Tamman Salam, constatata l’incapacità delle forze politiche di eleggere un presidente, ha deciso di cancellare tutte le manifestazioni ufficiali previste per il Settantunesimo anniversario dell’Indipendenza. Il palco delle autorità eretto come ogni anno davanti al mare sarebbe rimasto vuoto, tanto valeva annullare la sfilata militare, i brindisi, i ricevimenti. Non succedeva dalla fine della guerra civile, nel 1990. L’immagine della tribuna deserta rende bene l’idea del vuoto di potere che sta corrodendo le fondamenta dello Stato libanese portandolo alla paralisi. Ma ce n’è un altra che ci viene offerta in questi giorni dalla massima autorità militare, il Capo di Stato Maggiore, Jean Kahwaji, ad indicare come la sicurezza, il futuro stesso del paese siano appesi a un filo. «L’integrità territoriale del Libano – ha detto il generale – è minacciata». E rivolgendosi ai soldati: «Avete impedito che si realizzasse un Emirato dell’Oscurantismo dal confine orientale al mare».
Le due cose appaiono collegate. Quella che si combatte lungo il confine orientale con la Siria segnato dalla Valle della Bekaa, si può ormai definire come una guerra di posizione. Gruppi di jihadisti, per lo più di matrice sunnita, che si proclamano appartenenti ad organizzazioni radicali in lotta contro il regime siriano, come il Fronte al Nusra e lo stesso Stato Islamico, hanno preso posizione sulle montagne a ridosso della frontiera. Da lì, cercano di tenere sotto il loro controllo la rotta di transito e di approvvigionamento che dal Libano conduce fino alla periferia di Damasco e nel Sud della Siria. Ora, con l’arrivo dell’inverno è essenziale che queste strade restino praticabili e il confine continui a essere quella traccia teorica, assolutamente permeabile, che è sempre stata, almeno fino alla scorsa primavera. Quello che è intervenuto a scombinare i piani dei jihadisti è che l’Armée libanaise è tornata a presidiare la frontiera, di fatto aggiungendosi in questo compito agli Hezbollah, la milizia sciita libanese che ha nella valle della Bekaa la sua roccaforte. Quegli stessi Hezbollah che, in Siria, combattono accanto all’esercito fedele Bashar al Assad.
Da qui, il 2 Agosto, l’attacco dei ribelli contro Arsal, sul confine, dove sono stati uccisi 12 soldati e una trentina, inclusi alcuni poliziotti, sono stati presi in ostaggio. Le trattative per il rilascio degli ostaggi, due dei quali sono stati decapitati e un terzo ucciso a colpi di pistola, sono tuttora in corso e hanno assunto le dimensioni di uno psicodramma collettivo.
Dopo Arsal, la guerriglia anti-Assad e anti-Libano, ha messo nel mirino gli Hezbollah, con un’azione in profondità che ha raggiunto la periferia di Balbeck, la capitale della Bekaa e lasciato sul terreno otto miliziani sciiti. Tra un’azione e l’altra, attentati con ordigni improvvisati piazzati sulle strade, autobombe lanciate contro posti di blocco, rapimenti.
A fine Ottobre, dal 24 al 26, durante un fine settimane d’inferno, la guerra s’è spostata a Tripoli, la seconda città del Libano, dove le fazioni politiche e religiose libanesi sembrano riflettere quelle che si combattono in Siria. Anche a Tripoli i ribelli hanno puntato le armi contro l’esercito libanese accusato di appoggiare gli Hezbollah. Per tutta risposta, i militari hanno attaccato i quartiere sunnita di Bab el Tabanneh, dove i gruppi armati avevano le loro basi: 28 morti tra miliziani, soldati e civili.
L’esercito, dunque, ha saputo arginare l’ondata di violenza a costo di pesanti perdite, e il patriarca maronita, Al Rahi, ha voluto rendere omaggio al sacrificio dell’Armée. «Se non fosse stato per loro – ha detto – i terroristi sarebbero arrivati a Junieh». Poi l’alto prelato s’è scagliato con insolita veemenza contro i dirigenti politici accusandoli né più né meno che di voler distruggere il paese.
Tutto questo, infatti, succede mentre le forze politiche, divise nei due soliti campi, il “14 Marzo” (sunniti, partiti cristiani di vecchio lignaggio ed altre minoranze) e l’“8 Marzo” (Hezbollah, partiti filo-siriani e cristiani del generale Aoun) non riescono a trovare un candidato alla presidenza dopo che, il 25 Maggio scorso, è scaduto il mandato di Michel Souleiman. Ma non basta. Incapace di approvare una nuova legge elettorale, il Parlamento ha deciso di mettere in mora la democrazia, rinviando le elezioni generali una prima volta per un anno e mezzo e la seconda volta per 31 mesi. Il che significa che resteranno al potere per un’intera legislatura senza essere eletti. Aspettano di vedere come finirà in Siria (dove in realtà a fronteggiarsi sono due potenze regionali, l’Iran e l’Arabia Saudita molto influenti nei destini libanesi). Perché è da Damasco e non dalle urne che deriva la loro legittimazione.