Corriere della Sera, 24 novembre 2014
Le auto sono tutte uguali? Eppure chi si è inventato la Smart ha vinto la scommessa. Forse i produttori dovrebbero avere più coraggio
Agli appassionati basta un dettaglio per riconoscere la marca di un’auto. Tanti altri sostengono che se da una vettura tra le più comuni e diffuse che circolano venissero staccati stemmi e scritte pochi, esperti compresi, capirebbero davanti a quale macchina si trovano. È davvero così? Indubbiamente un’omologazione generale sembra indiscutibile. Basta pensare al design dei crossover (tanto amati quanto più o meno indistinguibili l’uno dall’altro, fatte le dovute eccezioni). Oppure a quelle berline due volumi, tipo la Golf, per citare la più nota, che solo nei particolari osservati con attenzione possono essere distinte l’una dall’altra quando le incrociamo per strada.
Non c’è più fantasia? Non c’è abbastanza coraggio da parte dei produttori? Eppure chi si è inventato la Smart ha vinto la scommessa (nulla di simile era stato visto fino a quel momento). È vero che purtroppo le normative europee in materia di sicurezza obbligano chi disegna le auto a restare dentro canoni precisi, ma non c’è proprio più spazio per i colpi d’ala? C’è della verità nel lamento comune, ovvero che «le auto sono tutte uguali?». Lo abbiamo chiesto a quattro personaggi che per professione si occupano di stile, due addetti ai lavori del mondo automotive e due creativi trasversali a questo ambito.
La standardizzazione delle linee, secondo Flavio Manzoni, capo del design Ferrari, non è cosa nuova: «La definisco “estetica dell’intercambiabile” e avviene già dagli anni 90 per la necessità di dover lavorare sulla stessa piattaforma modulare – spiega —. Oggi si è innestato il fenomeno del rétro-design, cioè la riproposta di linee note: viviamo in un’epoca di incertezza e il ripiegamento sul passato è rassicurante. Il design invece ha l’obbligo di proporre il nuovo, ma per farlo in parallelo si devono esplorare le nuove tecnologie, cioè spingere oltre i limiti».
Anche Gioacchino Acampora, proprietario di Carrozzeria Castagna e autore di tante reinvenzioni di modelli noti, concorda, ma le diversità secondo lui ci sono eccome: «Oggi i produttori sono gruppi con più brand il cui dna è definito a tavolino: la loro bravura sta nel dare una connotazione a ogni modello combinando gli elementi in modo sempre diverso. Lo fanno Peugeot, Citroën e Toyota con le loro citycar: nessuno direbbe che sono sviluppate sullo stesso pianale».
Insomma, stessi ingredienti di partenza ma risultato diverso. Principio che funziona ancora di più nei dettagli, come sottolinea Rossella Guasco, responsabile Design, Color & Material Fiat Emea: «La scelta dei colori, dei materiali e delle finiture nasce da un’indagine che mette assieme il target del cliente con il suo stile di vita, i valori del brand e le tendenze in atto nel design. Il risultato finale è per forza differente».
«Per gli interni molte ispirazioni provengono dal mondo dell’arredamento e dalla moda – spiega Giulio Cappellini, trendsetter dell’interior design —. Ma il trasferimento di conoscenze non sempre va bene. Perché invece non tornare agli interni un po’ spartani ma intriganti della Citroën due cavalli o della prima Fiat Panda?». Piccole ma dirompenti anche nelle linee: «Se penso alla vecchia Twingo, alla Renault 4, alla Ka, ciascuna ha segnato un’epoca – ricorda Cappellini —. Oppure, tra le compatte, la Honda Civic, nata da un mix tra le linee di una berlina e di una coupé».
Inventare un genere che non c’era è il ruolo dei concept (a volte affidati a designer non automotive, vedi Ross Lovegrove, autore nel 2013 della visionaria citycar Twin’Z per Renault). E poi? «Nella produzione reale delle sperimentazioni in genere passa poco o nulla», lamenta Cappellini.
Operazioni fini a se stesse quindi? «Oggi i concept sono “show car”, un test per capire il gradimento del pubblico: se l’auto va in produzione è addomesticata dal marketing. In passato invece erano “dream car”, un sogno attraverso il quale i carrozzieri facevano ricerca immaginando un’auto del futuro – sostiene Manzoni, che conclude amaro —: oggi manca il coraggio, quella voglia di osare che fa nascere le icone».