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 2014  novembre 24 Lunedì calendario

Carlo Ancellotti, un’eccellenza italiana: «Un segreto per essere un vincente? Mai prendersi sul serio. I campioni sono più facili da allenare, vedi Cristiano Ronaldo e Ibrahimovic. Credo che i giovani italiani siano pigri»

L’occhio si perde tra la Meseta, l’altopiano castigliano all’orizzonte, la distesa dei campi da calcio dall’erba sempre perfetta e il cantiere dove entro la fine del 2015 sorgerà il palazzetto del basket. È davvero una cittadella dello sport la Ciudad Deportiva, la casa ipermoderna del Real Madrid. I calciatori arrivano alla spicciolata: è il temuto mercoledì di rientro dalla diaspora per le nazionali. Modric ha l’aria malinconica e le stampelle. Sulla soglia dell’ufficio dell’“Entrenador primer equipo” si affaccia un ragazzo con gli occhiali a specchio. «Entra, bomber», gli dice l’entrenador. «Estoy perfecto», lo rassicura il ragazzo, reduce da Portogallo-Argentina, sfida molto amichevole con Messi. È l’inizio della giornata ordinaria di una coppia non proprio banale: il Pallone d’oro Cristiano Ronaldo e Carlo Ancelotti, tra i favoriti per il premio al migliore allenatore del 2014.
I campioni della multinazionale ripopolano le stanze a prova di spia: per aprirle, servono le impronte digitali. Un canterano spunta dal sacro vestuario, lo spogliatoio dei blancos: è il diciannovenne Enzo Zidane, figlio di cotanto padre. Nel salone ristorante pranzano vicini calciatori e cestisti: Khedira, nuovo capitano della Germania campione del mondo, e il gigante pluridecorato Reyes. Dalla sala de tecnicos arriva l’eco delle risate dell’enclave italiana. William Vecchi, allenatore dei portieri. Giovanni Mauri, Francesco Mauri e Davide Ancelotti, preparatori. Beniamino Fulco, nutrizionista. E naturalmente lui, l’entrenador sdrammatizzator. Unico candidato del fu Bel Pallone, con Conte, agli Oscar di un’annata da dimenticare per una scuola che non vince più.
Ancelotti, lei si sente un’eccellenza italiana?

«Se il mio nome aiuta l’immagine dell’Italia, ne sono onorato».
In 20 anni da allenatore è uno tra i primi 10 della storia.
«Non me l’aspettavo, quando iniziai con Sacchi in Nazionale. Ho avuto la fortuna di ottimi maestri, a cominciare da Arrigo. E buon fiuto: scelte giuste al momento giusto».
È entrato nella storia del Real per la Decima.
«Speriamo non solo per quella Coppa Campioni. Ho il contratto fino al 2016 e stiamo parlando del rinnovo».
A chi darebbe l’Oscar del 2014?
«A Loew o a Simeone. Forse più a Loew: la Germania ha vinto il Mondiale. Col bel gioco e la programmazione tecnica e organizzativa».
Le piace la definizione “domatore di campioni”?
«Mi piace, ma i campioni veri non c’è bisogno di domarli. Sono i più seri e i più professionali, vedi Cristiano Ronaldo».
Però ne ha ammansiti tanti, Palloni d’oro e non.
«Le buone relazioni, anche con chi gioca meno, dipendono dal mio passato: capisco le esigenze dei calciatori. E poi i fuoriclasse sono i più facili da allenare. Me ne vengono in mente due: Cristiano e Ibra. Zlatan è l’esatto opposto dell’immagine distorta che ne viene data. Un campione è anzitutto un uomo».
Con chi ha avuto più feeling?
«Il massimo livello di confidenza l’ho raggiunto con Gattuso. Rino era come un fratello, anche se io ero il suo allenatore. Gli ho confidato cose che non ho mai detto a nessun altro».
Balotelli è impossibile da domare oppure non è un campione?
«Deve trovare un posto dove sentirsi a proprio agio. Prima o poi ci riuscirà, ma dipende da lui: aiutati che il ciel ti aiuta».
Lei lo prenderebbe?
«Ci stavo provando, al Psg. Veniva da un ottimo Europeo. Poi si è presentata l’occasione di Ibra e siamo andati più sul sicuro».
Altra definizione spagnola: Ancelotti “el pacificador”, Mourinho “el guerrillero”.
«Siamo diversi, ognuno gestisce le situazioni con il carattere che ha. Il mio mi porta a fare la guerra solo se non posso evitarlo. Comunque Mourinho è un grandissimo allenatore».
Ogni giorno guerreggiava col Barcellona: si immagina oggi, coi progetti di secessione catalana?
«Guardi che qui politica e sport sono ben distinti: quella col Barça è una bellissima rivalità sportiva».
Ma perché i grandi allenatori sono pagati più di molti calciatori?
«Perché devono gestire un calcio molto più complesso. Un tempo le rose erano di 16 e si giocava una volta alla settimana. Ora sono di 25 e si gioca a ciclo continuo. Solo la partita è rimasta uguale».
Come sintetizza, a 55 anni, il suo percorso?
«Umanamente non sono cambiato: stesse idee e stessi valori. La differenza è che mi sento cosmopolita. E addirittura poliglotta! Parlo 4 lingue, così peggiora l’italiano. Le esperienze a Londra, Parigi e Madrid sono state preziose. Anche come allenatore sono meno preoccupato, più internazionale».
La tattica?
«L’evoluzione si è sviluppata con l’esigenza di fare coesistere calciatori di grande qualità tecnica, adattando a loro il sistema di gioco».
Le intuizioni sono note: i cambi di ruolo di Pirlo, Di Maria e Kroos. E gli errori?
«Non avere voluto Baggio al Parma e non essermi accorto alla Juve che Henry non era un esterno».
Al Real non basta vincere, è obbligatorio lo spettacolo.
«Il Real è un club molto ben strutturato. Il soci eleggono ogni 4 anni il presidente, il che diventa anche uno strumento di controllo. Qui non c’è il magnate, ma una formidabile gestione del marchio. Il Real vuole i migliori e, di conseguenza, il gioco migliore».
Florentino Perez compra le stelle, poi tocca a lei: l’anno scorso Bale, il più costoso al mondo, e quest’anno James, la star del Mondiale.
«E chi si lamenta? Bale è uno dei più grandi e, quando sta bene, gioca sempre. James non ha solo tecnica: è anche un atleta, con grandi doti di resistenza».
La vostra preparazione mira alla flessibilità muscolare.
«Giocando ogni tre giorni, non ci si può allenare tanto: bisogna recuperare. Ma in allenamento pretendo intensità e concentrazione».
Appunto: Conte critica la pigrizia e la poca fame dei giovani italiani.
«Temo che sia vero. Di sicuro il futuro è legato ai nuovi: Verratti, che ha personalità e voglia di arrivare, e poi Darmian, De Sciglio, El Shaarawy, Insigne, Immobile. A livello tecnico non siamo messi così male».
Il ct, dopo lo sfogo, ha ottenuto due stages.
«Lo capisco. Sta toccando con mano la realtà di tutte le Nazionali. Ma non vedo tante soluzioni, dato il calendario».
Il conflitto d’interessi tra club e Nazionali è insanabile?

«Il rapporto è complicato. Io ho perso a 12 mesi di distanza Khedira e Modric. E in 16 ho visto tornare 13 infortunati. Si potrebbe concentrare l’attività delle Nazionali a fine campionato».
Com’è il calcio italiano, visto da Madrid?
«Preoccupante. Tutti i paesi fanno passi avanti, noi invece siamo statici. San Siro vuoto è triste: si è perso interesse verso il calcio. La serie A ha poco fascino, non attira i campioni. Stadi e infrastrutture sono il problema centrale».
Idee?
«Un grande evento può aiutare. È successo alla Germania col Mondiale 2006, succederà alla Francia con l’Europeo. Ma servono stadi di proprietà, come quello della Juve. Ho studiato il fenomeno: lo United ricava dallo stadio 180 milioni, il Milan 20».
Questione di soldi e di tasse?
«No. In Spagna la tassazione è al 50%. Il Real, che migliorerà ancora il Bernabeu, investe di continuo sulla propria immagine. Ha un museo da 3 milioni di visitatori l’anno».
La crisi di Milano, tra il nuovo corso di Thohir e gli amarcord di Berlusconi?
«È transitoria. Tornerà a pensare in grande. Il vantaggio di Berlusconi, come di Florentino, è che è tifoso fin da bambino. Altri, come Abramovich al Chelsea e Nasser al Psg, tifano da quando hanno comprato il club».
Le rose di 25 fermeranno l’invasione straniera?
«La rosa del Real è di 22. Piuttosto, in Italia si fatica a lanciare i giovani perché mancano le seconde squadre. Io l’anno scorso mi sono ritrovato 5 ragazzi già pronti, di cui 4 spagnoli, grazie alla serie B giocata col nostro Castilla: Morata, Jesè, Carvajal, Nacho e Casemiro».
L’eccesso di tatticismo è un guaio?
«Lo sono tutti gli integralismi e le ossessioni. Prenda le statistiche. Sono un supporto prezioso se non si esagera, per coprire la mancanza di conoscenze e il contatto col campo».
Il suo amico Borgonovo diceva: il segreto di Carlo è non prendersi troppo sul serio.
«Stefano mi conosceva. Vede questa foto? È una partita di beneficenza, quando giocavo nella Roma. Questo è Panatta, quest’altro Chierico. Il calcio è anche amicizia. Il momento di smettere arriverà quando non mi divertirò più. E se uno è troppo serio, non si diverte. Chiaro che è più facile divertirsi, se hai Cristiano Ronaldo».
“Due cose sono sicure nella vita: la morte e che Cristiano ti farà gol”.
«Non ricordo di averlo detto, ma dico sempre che con lui parti dall’1-0».
Vorrebbe anche Messi?
«Domanda retorica, ma resterà dov’è: esistono i simboli. Noi abbiamo Casillas, Ramos, Cristiano. Il Barça ha Busquets, Iniesta, Messi».
Il 30 dicembre, a Dubai, incrocerà il Milan.
«Spero da campione del mondo. Il Mondiale per club in Marocco non è semplice, a partire dalla probabile semifinale col Cruz Azul».
La rivedremo mai al Milan, magari in un’altra veste?
«Se prima o poi tornassi in Italia, sarebbe solo al Milan. Ma per allenarlo».
Diventerà per qualche suo ex giocatore il maestro che è stato per lei Sacchi?
«Non avrei mai pensato a Inzaghi, Gattuso e Seedorf mister. Se hanno preso qualcosa da me e se diventeranno allenatori importanti, mi farà piacere».
Seedorf ha sprecato l’occasione.
«A stagione in corso è la cosa più difficile. Io l’ho provato alla Juve e al Psg. Clarence ha cercato di incidere in un ambiente che faticava ad accettare il cambiamento. A lui e agli altri auguro il mio stesso fiuto nelle scelte».
Madrid è la più azzeccata?
«Abito nel centro di una città affascinante. E sto vivendo l’esperienza più bella per un padre: lavorare col proprio figlio. A giugno, poi, mia figlia Katia mi renderà nonno».
La sua giornata?
«Molto lavoro dalle 9 alle 18 alla Ciudad. Dieta sana e, appena posso, un po’ di jogging al parco. Nei rari giorni liberi mi piace girare. Ho visto Toledo, Santander e Alicante».
Il vecchio sogno di allenare una nazionale africana?
«Non ci penso più. La nazionale è troppo complicata».
Quella italiana?
«Conte è bravissimo. L’Italia va in finale al Mondiale ogni 12 anni e vince ogni 24. Mi candido per il 2030: avrò solo 71 anni, si può fare».