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 2014  novembre 24 Lunedì calendario

«Siamo pronti a inviare forze militari all’interno di uno Stato palestinese: aiuterebbero la polizia locale e rassicurerebbero gli israeliani. La sicurezza agli israeliani va garantita». A parlare è il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi. Ma senza negoziati è tutto inutile

Corriere della Sera, domenica 23 novembre
Il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, che compie da oggi una visita in Italia e in Vaticano prima di proseguire per Parigi, ha concesso al Corriere della Sera la sua prima intervista a un quotidiano occidentale. L’incontro, al quale ha partecipato il direttore del Corriere Ferruccio de Bortoli, si è svolto nel palazzo presidenziale di Heliopolis, al Cairo. Durante il soggiorno romano il presidente dell’Egitto incontrerà il presidente Giorgio Napolitano, il presidente del Consiglio Matteo Renzi, il presidente del Senato Pietro Grasso, il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e una rappresentanza di imprenditori. Domani sarà ricevuto da papa Francesco. 
Signor presidente, quale messaggio intende portare ai massimi dirigenti italiani? 
«Voglio chiedere all’Italia, anche nel suo attuale ruolo di presidente di turno della Ue, di spiegare a tutta l’Europa quanto sta accadendo in Egitto e quanto sia preziosa per tutti la stabilità egiziana. Naturalmente desideriamo anche un aumento degli investimenti italiani che sono già consistenti ma che potrebbero esserlo molto di più. Stiamo provvedendo ad alcuni aggiustamenti legislativi che dovrebbero aiutare. Speriamo che il turismo, italiano ed europeo, riprenda. Ma il messaggio fondamentale riguarda la sicurezza comune, la lotta comune al terrorismo. Perché se non sarà comune, non funzionerà. Di ciò parlerò anche con il Papa, in particolare per l’aspetto che riguarda la sicurezza delle minoranze religiose, cristiani in testa». 
A proposito di terrorismo, l’Egitto ha subito e subisce molti attentati, nel Sinai dove siamo quasi alla guerra ma anche nelle grandi città. Lei pensa che esista un legame tra gli attentati e l’infiltrazione dell’Isis nella regione? 
«Il terrorismo è composto da tante facce di una stessa medaglia, l’Isis è soltanto una di queste ma all’origine esistono ideologie comuni tra tutte le formazioni terroristiche. Noi combattiamo anche militarmente contro il terrorismo, certo. Ma siamo nel contempo consapevoli del fatto che nessuno potrà fermare la minaccia senza una vera lotta alla povertà, senza interventi che servano a cambiare una certa cultura che poi porta alla facilità di reclutamento. Anche su questo è essenziale collaborare». 
È recente la strage nella sinagoga di Gerusalemme. Lei condivide il timore che lo scontro religioso radicalizzi il confronto tra israeliani e palestinesi? La diplomazia egiziana è riuscita a far cessare le ostilità dopo l’ultima guerra di Gaza, ma anche lì le tensioni stanno montando… 
«La guerra di religione è uno spauracchio da evitare a tutti i costi, ma servono componenti che talvolta mancano. Nel caso specifico bisogna garantire la sicurezza agli israeliani ma contemporaneamente restituire la speranza ai palestinesi e la creazione di uno Stato palestinese è lo strumento migliore per alimentare questa speranza. Poi, dopo la creazione di uno Stato palestinese, si aprirà un lungo processo, ci vorrà tempo per ristabilire la fiducia tra le parti, ma non è forse accaduto lo stesso tra Egitto e Israele dopo che abbiamo fatto la pace? Il periodo di transizione iniziale sarà determinante, perché gli israeliani non possono rischiare la loro sicurezza e i palestinesi non devono più compiere atti gravi e sconsiderati che sarebbero, a quel punto, anche autolesionisti. L’Egitto è pronto ad aiutare». 
Come? 
«Le dirò una cosa: noi siamo pronti a inviare forze militari all’interno di uno Stato palestinese. Aiuterebbero la polizia locale e rassicurerebbero gli israeliani con il loro ruolo di garanzia. Non per sempre, s’intende. Per il tempo necessario a ristabilire la fiducia. Ma prima deve esistere lo Stato palestinese dove inviare le truppe». 
Ma lei ha parlato con le parti di questa possibilità? 
«Ne ho parlato a lungo con il primo ministro Netanyahu, gli ho detto che va imboccata una via coraggiosa, altrimenti non si risolverà nulla». 
E con Abu Mazen? 
«Certo, ne ho parlato anche con lui». 
Presidente, quanto accade in Libia è molto preoccupante sia per l’Egitto sia per l’Italia. Come se ne può uscire? 
«Stabilizzare la Libia è una priorità per tutti, non soltanto per i nostri due Paesi. Lì regna il caos, ma soprattutto lì si stanno creando basi jihadiste di estrema pericolosità. La Nato non ha completato la sua missione. Perché dopo la guerra che ha eliminato Gheddafi la Libia è stata abbandonata? Non credo a nuovi interventi militari e l’Egitto non ne ha compiuti e non ne compie. Invece la Comunità internazionale deve fare una scelta molto chiara e collettiva a favore dell’esercito nazionale libico e di nessun altro. Aiuti, equipaggiamenti, addestramento devono andare esclusivamente all’esercito regolare che nel tempo avrà i mezzi per riportare l’ordine». 
Esiste pure il problema dei flussi migratori verso Italia… 
«Lo so e le faccio presente che ciò non accade in Egitto e non soltanto per ragioni di distanza. L’Italia non può affrontare il problema da sola, è ovvio. Ma serve una strategia della quale si è molto parlato e che andrebbe realizzata con urgenza: bisogna investire e creare lavoro nei Paesi di origine. I diritti umani si difendono anche così». 
A proposito, lei è stato accusato di eccedere in durezza nei confronti dei Fratelli musulmani. Proprio in questi giorni è stata chiesta dall’accusa la pena di morte per il suo predecessore regolarmente eletto Mohammed Morsi, sotto processo come migliaia di Fratelli che vengono equiparati ai terroristi. Ci sono state centinaia di condanne a morte, non eseguite in attesa delle sentenze definitive. E il 14 agosto dello scorso anno a Rabaa el Adaweya l’intervento dei militari ha provocato una strage. Non teme che un simile approccio aumenti le divisioni sociali in Egitto e riduca la sicurezza invece di aumentarla? 
«Guardi, è lei che esagera. Noi abbiamo soltanto reagito. Dal 3 luglio del 2013, quando Morsi cadde sotto la spinta di milioni di egiziani, fino al 14 agosto, quando dovemmo riportare la normalità al Cairo usando la forza, i Fratelli musulmani avrebbero potuto collaborare con le Forze armate, nessuno li perseguitava, si muovevano liberamente. Invece si dettero alla violenza e crearono una occupazione illegale permanente nella zona di Rabaa el Adaweya attirando provocatori di ogni genere. Cosa dovevamo fare? Abbiamo agito nell’interesse nazionale dell’Egitto e con il pieno consenso della popolazione. Quanto al processo contro Morsi, si tratta di una richiesta della pubblica accusa e siamo al primo grado, c’è l’appello, c’è una procedura lunga e lo stesso vale per gli altri. Noi non interferiamo nel corso della giustizia». 
Questo tipo di rapporto con i Fratelli musulmani potrà cambiare in futuro? 
«Le ho già risposto, dipende da loro. E dai giudici». 
Poi c’è l’altra questione dei tre giornalisti di al-Jazeera in carcere da oltre trecento giorni perché accusati di aver diffuso notizie false a sostegno dei Fratelli musulmani. Alcuni hanno visto nella pesante condanna un gesto ostile verso il Qatar, con il quale ora i rapporti potrebbero migliorare grazie a una mediazione saudita. Ma soprattutto è in gioco il suo rapporto con i media. C‘è qualcosa di nuovo all’orizzonte, per il canadese Fahmy, l’australiano Greste e l’egiziano Baher Mohamed? 
«Se io avessi avuto il potere di decidere non li avrei condannati, li avrei espulsi. Ma ora ci sono le decisioni della magistratura, che noi, lo ripeto, rispettiamo. Comunque sì, qualcosa si muove nel senso che ci poniamo il problema di come risolvere questa situazione». 
Forse applicando il decreto sull’estradizione promulgato nei giorni scorsi? 
«Posso soltanto dirle che di sicuro la decisione eventualmente presa corrisponderà all’interesse dell’Egitto e di nessun altro». 
Così come è stato nell’interesse dell’Egitto il taglio delle sovvenzioni sui prodotti energetici, che il Fondo monetario reclamava da tempo? 
«Precisamente. L’eliminazione delle sovvenzioni, non soltanto in campo energetico, è una necessità per l’economia egiziana ed è per questo che l’abbiamo applicata. Stiamo facendo il massimo, ma non sono soddisfatto. Abbiamo molti milioni di giovani senza lavoro, come potrei essere contento? E so benissimo che situazioni di questo genere sono collegate alla sicurezza, alla prevenzione del terrorismo. Questo lo dovete capire anche voi europei, io a Roma e poi a Parigi lo ripeterò senza stancarmi. Matteo Renzi è venuto al Cairo, lo sa già, ma io tornerò a insistere. Per aumentare la sicurezza reciproca, ma anche perché cooperando ci si conosce, si creano legami culturali, si restringe il Mediterraneo. Le do un esempio: il nostro ministero della Cultura sta traducendo un’opera sul viaggio della Sacra Famiglia. Un passo, e molti altri dovrebbero seguire reciprocamente se vogliamo trasformare la collaborazione economica e la sicurezza comune in un vero, profondo avvicinamento. Un avvicinamento che è nell’interesse reciproco». 
Un altro passo lo ha compiuto lei con la legge contro le molestie alle donne. Soddisfatto dei risultati? 
«Le rispondo nuovamente di no. Certo, i casi sono drasticamente diminuiti. Ma una legge non basta, bisogna modificare il costume sociale, dobbiamo avvicinarci al vostro modello che pure non è perfetto. E dire che in Egitto di donne in posizioni di responsabilità ne abbiamo parecchie». 
Lei è stato criticato da più parti, ma ora sembra essere al centro di una rinnovata attenzione internazionale... 
«Alle critiche ho risposto e l’importanza dell’Egitto evidentemente viene capita. Con gli Usa i rapporti di grande amicizia sono tornati ai tempi migliori. Con Putin c’è una ottima intesa. A Capodanno sarò in visita in Cina. Benissimo, ma io voglio più Europa».
Franco Venturini

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Corriere della Sera, Lunedì 24 novembre

Nel libro Arabian Nights ha cercato di spiegare gli arabi, i vicini di casa che li circondano, agli israeliani. Per provare ad ammansire l’ansia da assedio con la voce che tutti riconoscono nei programmi trasmessi dalla radio dell’esercito, la più ascoltata nel Paese, dove Jacky Hugi analizza e decodifica quel che succede dall’altra parte delle frontiere. Come la proposta di Abdel Fattah al Sisi che i giornali e le televisioni israeliani hanno ripreso e rilanciato. «Siamo pronti a inviare forze militari all’interno di uno Stato palestinese – ha detto il presidente egiziano in un’intervista al Corriere della Sera prima del viaggio in Italia —. Aiuterebbero la polizia locale e rassicurerebbero gli israeliani con il loro ruolo di garanzia. Non per sempre, s’intende. Per il tempo necessario a ristabilire la fiducia. Ma prima deve esistere lo Stato palestinese dove inviare le truppe». 
Hugi fa notare quell’ultimo passaggio, quell’ultima condizione, la più complicata per ora da realizzare: «I negoziati sono fermi, qualunque accordo sembra lontano. Questo permette a Benjamin Netanyahu di prendere tempo e non rispondere all’offerta di al Sisi. Il premier israeliano deve anche tenere conto della diffidenza dei suoi elettori: le relazioni tra i due Paesi sono molto migliorate di recente, ma è difficile che la gente qui accetti di affidare la sicurezza sui confini a un esercito arabo. Verso l’Egitto resiste un atteggiamento sospettoso legato alle guerre combattute in passato». 
Abu Mazen, il presidente palestinese, ha ripetuto di essere pronto ad accogliere una forza internazionale, di poter accettare anche un futuro Stato palestinese demilitarizzato. L’idea di al Sisi sembra applicabile alla Cisgiordania, può essere più complicata da attuare nella Striscia di Gaza, che pure confina con l’Egitto: i rapporti con i fondamentalisti di Hamas sono tesi. 
L’esercito egiziano ha spianato a colpi di tritolo e demolito le case per creare una fascia di sicurezza profonda un chilometro alla frontiera con Gaza, un’area sotto controllo militare per fermare i traffici di armi e la circolazione di ideologie proibite come le prediche dei Fratelli musulmani. «Non dimentichiamo però – continua Hugi – che anche per Hamas l’Egitto resta Umm A-Dunya, la madre del mondo, lo Stato arabo più importante. È vero, l’ostilità in questo periodo esiste, Hamas sa che il popolo e qualunque regime egiziani saranno sempre leali alla causa palestinese». 
Il primo ministro Netanyahu e il presidente al Sisi condividono l’obiettivo di frenare l’avanzata estremista nella penisola del Sinai. «I due leader hanno un buon rapporto personale, rafforzato da interessi strategici: vogliono la stabilità nella regione. Il coordinamento tra gli eserciti è tale che l’aviazione israeliana ha avuto il permesso di colpire in territorio egiziano perché i nemici erano comuni. Al Sisi non usa e non sfrutta la retorica anti israeliana a scopo interno, al contrario proclama e sostiene una relazione di buon vicinato. Sa di poter resistere a eventuali pressioni popolari per un lungo periodo, la sofferenza della popolazione palestinese a Gaza non sta infiammando le proteste al Cairo, dove la gente piuttosto è arrabbiata e preoccupata per la crisi economica». 
Davide Frattini