il Giornale, 24 novembre 2014
Riccardo Muti e l’Italia della musica mandata in rovina dagli scioperi e dall’incapacità. Eccellenze a parte
Dopo un trionfale «giro» europeo con la meravigliosa Orchestra Sinfonica di Chicago, il Maestro Riccardo Muti è rientrato a Ravenna. Smentisce nei fatti chi aveva pensato ad un distacco definitivo dall’Italia. Nel corso di un incontro ha voluto dare una esclusiva al Giornale. «Ho detto e ripetuto che non prenderò più titoli “stabili” in Italia, ma continuo a lavorare nel Paese che amo. Voglio lottare per la cultura e per la musica, perché rimanga alta la sua dignità e quella di tutti quanti ad essa si dedicano. Inizierò una tournée per l’Italia (dal primo al 16 dicembre) con i giovani dell’Orchestra “Cherubini”, ragazzi che mi danno molte soddisfazioni e con i quali siamo stati invitati al Festival di Salisburgo per “Ernani” di Verdi».
Dedicarsi ad un’orchestra giovanile è in controtendenza rispetto a quanto accade in Italia, dove si preferisce liquidare, con la giustificazione del risparmio, perfino istituzioni dalla storia gloriosa.
«Negli anni ho visto orchestre chiudere, come quelle della Rai di Milano, di Roma e la “Scarlatti” di Napoli. Quello che non poteva accadere, è successo. Perché si è sempre proceduto per salvataggi in extremis, con azioni claudicanti, per rattoppare un sacco, invece di sostenere in modo ragionato e durevole, certo, il rapporto fra artisti e organizzazioni musicali».
Mentre ovunque si preferisce intervenire a sanare le cause che provocano i dissesti economici.
«L’Italia musicale vista dall’estero, eccellenze a parte, è quella di un Paese sempre pronto allo sciopero, alle chiusure, dove l’incapacità di risolvere i problemi è cronica. Credo che i teatri debbano produrre di più, sempre mantenendo un livello qualitativo alto, e in cambio dell’eccellenza garantita i musicisti debbano avere una sicurezza retributiva migliore dell’attuale. Se non si risolve questo nodo non si può lavorare con la necessaria serenità e tranquillità, cosa che oggi riesco a fare con i giovani della Cherubini e con la “mia” orchestra di Chicago».
Queste osservazioni vengono spontanee dopo aver verificato, per esempio a Vienna, quanto la musica sia importante nella vita viennese di tutti i giorni.
«Abbiamo avuto l’onore di essere l’orchestra “in residenza” al Musikverein di Vienna per una settimana».
E lei non vuole dirmi che in locandina è segnalato come Riccardo Muti Zyklus (ciclo Muti).
«Sono contento più che per il risultato entusiasta di pubblico e critica, per l’atmosfera: la gioia e la felicità di far musica, con colleghi illustri fra gli ascoltatori».
C’erano, fra gli altri direttori, Daniel Barenboim e Valerij Gergiev, e pianisti come Rudolf Buchbinder ed Emmanuel Ax.
«Insisto: noi italiani non dobbiamo dimenticare la nostra storia, il nostro posto. Non dobbiamo riferirci solo ai capolavori storicizzati del repertorio operistico, dimenticando quanto l’Italia ha dato nel Cinque, Sei e Settecento alla musica strumentale, all’oratorio. E poi vorrei che il repertorio barocco e prebarocco non rimanesse appannaggio soltanto di complessi stranieri che difficilmente intendono quello che Monteverdi voleva quando parlava di recitar cantando: l’articolazione della parola, il suo significato profondo, come nelle opere di Mozart e Da Ponte, dove il gioco goliardico e spregiudicato fra testo e sottotesto, spesso non viene compreso».
Anche in quel «repertorio» di capolavori operistici per decenni sono prevalse liste di esclusioni, si negava che alcuni autori, alcune opere fossero quei capolavori che sono, tendenza che oggi, fortunatamente, è circoscritta a cosiddetti dirigenti disinformati o nostalgici.
«Nel 1970 con Roman Vlad, allora direttore artistico del Maggio Fiorentino, programmammo “Cavalleria Rusticana” e “Pagliacci”. Scoppiarono polemiche furibonde, interrogazioni in consiglio comunale, attacchi violenti, perché volevamo mettere in scena due “operacce” simbolo della non cultura (mentre nello stesso periodo Herbert von Karajan incideva l’opera). Molti non conoscevano nemmeno tutte le opere, magari qualche brano».
Un errore di prospettiva storica che nei Paesi austrotedeschi non è stato compiuto. Anzi Karajan dimostrava ai nostri «critici pensanti» quanto quelle due opere fossero amate nel Paese di Brahms e Mahler, ammiratori di Mascagni.
«I tedeschi non hanno mai dimenticato la loro grande tradizione musicale. Lo si capisce anche dal fatto che quando ti conferiscono una onorificenza come quella di “Membro d’onore della Società degli amici della Musica di Vienna”, non è una patacca, è un vero titolo d’onore che rimane per sempre. Nel programma che ho diretto a Vienna questo “titolo” non solo era segnato sotto il mio nome, ma anche su quello di Schumann e di Stravinskij. Per questo mi sentivo imbarazzato e orgoglioso nello stesso tempo».
Lei ha sempre sostenuto compositori italiani che un tempo erano celeberrimi all’estero, come il fiorentino Cherubini, temuto e rispettato della Parigi dalla Rivoluzione alla Monarchia di luglio e gli operisti della scuola napoletana.
«A Chicago ho eseguito due “Messe” di Cherubini, compositore oggi sconosciuto. Bisogna ritornare ai tempi in cui Toscanini incise il “Requiem” per voci miste. Lo stesso si dica della scuola operistica napoletana. Quando feci il “Demoofonte” di Niccolò Jommelli, i francesi mi chiesero chi era questo Jommellì. Ho reagito con italica veemenza ricordando che se avessero passeggiato intorno all’Opéra, avrebbero potuto vedere un medaglione con il ritratto di Jommelli, ancora famoso in Francia quando fu costruito il Palais Garnier».
Ma obliare l’apporto dei musicisti italiani non è solo un vezzo transalpino?
«Qualcosa di simile accadde a Vienna quando feci il “Salve Regina” del napoletano Nicola Porpora. Qualcuno mi chiese chi fosse Porpòra. Appena ricordai che Haydn aveva detto che il maestro a cui doveva di più era stato proprio Porpora, si misero tutti sull’attenti».
Nell’attuale crisi della musica in Italia, c’è anche un problema di abbassamento della qualità dei gestori delle cose musicali?
«Mancano operatori musicali come Francesco Siciliani. Ricordo che nel 1970 mi invitò a casa sua dopo una concerto a Roma. Mi disse: “C’è un’opera che devi dirigere, l’“Agnese di Hohenstaufen” di Spontini. Mi misi a suonare dall’ingresso dei cavalieri francesi. Dopo cinque minuti: “È l’opera che devi dirigere”, e la feci in forma di concerto con cast stupendo (Caballé, Antonietta Stella, Bruno Prevedi e Bruscantini) e la ripresi al Maggio Fiorentino con la Gencer al posto della Caballé».
Per entrare nell’argomento dell’interpretazione operistica delle opere italiane, oggi superficialmente affrontato, cosa vuole dire?
«L’opera italiana all’estero viene spesso massacrata non solo per ragioni “linguistiche”: si vendono come “tradizione” abitudini personali, tagli avventati, sopraffazioni. La mia generazione ha avuto esempi da cui partire, penso a Gui, Votto, Gavazzeni e Franco Ferrara – musicisti che chiamo sempre “Maestri” e mi è venuta l’idea di trasmettere quanto ho imparato di questa tradizione sana ai giovani. Stiamo dando il via a Ravenna ad un’Accademia dove insegnare. Un modo, non il modo, di fare l’opera italiana al di fuori della volgarità esaltata da certi gazzettieri di rozze abitudini. Pensiamo di portare quest’Accademia a Chicago, in Cina e in Giappone. Inizieremo con il “Falstaff”».
Maestro, lei dice che vuole passare più tempo nella sua terra (le Puglie) e vedere l’estate, ma i programmi futuri mi sembra smentiscano un po’ questo desiderio.
«A parte l’estate, i progetti sono molti: una tournée con i Wiener a Mosca e San Pietroburgo, concerti con i Berliner e l’orchestra della Bayerische Rundfunk di Monaco. Un’altra residenza settimanale a Vienna con Chicago».
Si vocifera sempre di un ritorno alla Scala.
«Alla Scala auguro di cuore ogni bene: il bene della Scala è il bene di tutti i teatri italiani. E di riappropriarsi del suo repertorio. Certi autori come Cherubini, Spontini, Bellini, Mercadante, non mi pare che siano stati frequentatissimi, pur non ignorando gli altri repertori: tedesco, russo, francese».
Intanto si riparte dalla musica. Nel mese di dicembre l’Orchestra Cherubini compirà un giro di città molto vicine al cuore del Maestro Muti. A Foggia riaprirà il teatro «Giordano» e ad Altamura il «Mercadante». I teatri vanno aperti. Sono luoghi di cultura in continuo. Non eventi».