il Giornale, 24 novembre 2014
Quel tesoretto del Pd da 500 milioni di euro: terreni, edifici, società immobiliari, opere d’arte e liquidi. Riuscirà Renzi a metterci le mani sopra?
Un passo alla volta, la scalata di Matteo Renzi al Partito democratico è arrivata a un momento chiave. Ha conquistato rapidissimamente le primarie, la segreteria, Palazzo Chigi e sta per piazzare un amico suo al Quirinale. Gli manca un ultimo obiettivo, determinante: i beni, il patrimonio, il tesoro degli ex comunisti. Soldi, edifici, terreni, società immobiliari, opere d’arte per un valore che supera il mezzo miliardo di euro. Il compagno Ugo Sposetti, vecchia scuola Pci, ha chiuso tutto in 70 fondazioni-cassaforte sparse per l’Italia, intitolate alla nomenclatura comunista (Longo, Berlinguer, Natta, Chiaromonte, Quercioli, Vittorio Foa e altri minori) o a simboli come il Tricolore, Bella ciao, la Quercia, Rinascita. Enti morali senza scopo di lucro, proliferati grazie a una leggina del 2006 (governo Prodi), affidati ad amministratori di provata fede e soprattutto separati dal partito. Riuscirà il nostro eroe a metterci le mani sopra?
Piatto ricco, mi ci ficco. Anzi, piatto ricchissimo. I beni transitati dal Pci ai Ds – ma non al Pd – sono un’enormità. Poche persone ne conoscono la consistenza reale. Sicuramente tre: lo stesso Sposetti, l’archivista che li ha catalogati tra il 2007 e il 2008 e cioè la professoressa Linda Giuva e il di lei marito, Massimo D’Alema. Un censimento pubblico non c’è, con tanti saluti alla trasparenza. Le fondazioni fanno capo a un’associazione nazionale presieduta da Sposetti che porta il nome di Enrico Berlinguer; una sorta di holding che si è data un semplice compito di coordinamento senza obblighi di rendicontazione, e meno che mai tenuta a redigere un bilancio consolidato con la consistenza patrimoniale complessiva.
Ogni ente fa quello che gli pare. Pochi hanno un sito internet e nemmeno tutti v’inseriscono i bilanci; soltanto una minima parte elenca gli indirizzi degli stabili con l’elenco degli affittuari ma non dei canoni incassati. Della stragrande maggioranza non si sa nulla, zitti e mosca. Nemmeno le regioni, che devono vigilare sugli enti non-profit, pubblicano i bilanci delle fondazioni. Tutto tace anche sulle attività che dovrebbero essere la loro vera ragione di esistenza, cioè le iniziative per «valorizzare il patrimonio culturale» del Pci-Pds-Ds. Al massimo si registrano la «notte rossa», qualche serata per il film Quando c’era Berlinguer di Walter Veltroni e rare presentazioni di libri di D’Alema.
Sono manifestazioni sporadiche che fanno capire qual è il vero business delle fondazioni: la gestione degli immobili. Edifici sparsi in tutta Italia, città grandi e piccoli paesi, palazzi centrali, stabili di periferia e cascine di campagna, le «case del popolo». In questo calcolo non sono comprese 410 opere d’arte, una collezione vastissima soprattutto di quadri e opere grafiche dal secondo dopoguerra in poi, un insieme di grandi maestri e artisti dilettanti in cui spiccano lavori di Guttuso, Mario Schifano, Renato Birolli, Ernesto Treccani, Piero Dorazio, Giò Pomodoro. Questo tesoretto non è finito in mano alle fondazioni.
A metà degli Anni 90 la stima del patrimonio artistico era di 10 miliardi di lire, cioè cinque milioni di euro. Quasi vent’anni dopo, si può ritenere che il valore sia quasi (...)
(...) raddoppiato. Le più famose sono due gigantesche tele di Guttuso, entrambe proprietà della direzione nazionale Ds: I funerali di Togliatti (3,4 metri per 4,4) in deposito permanente al Museo di arte moderna di Bologna, e La battaglia di Ponte dell’Ammiraglio (5 metri per 3) esposta alla Galleria nazionale di arte moderna di Roma. I compagni di Schifano (2 metri per 2) venne invece comprata dall’attore Gianmaria Volonté che la regalò alla sezione Pci di Trastevere.
Guttuso era un militante convinto, premiato con un seggio in Parlamento, che spesso pagava la tessera con un dipinto o una litografia. E così, dice la leggenda, si è alimentato il patrimonio immobiliare rosso: attraverso le autotassazioni, le feste dell’Unità, i lasciti e i sacrifici dei compagni che passavano il tempo libero a edificare le case del popolo. Vero, ma in parte. Di molti beni il Pci s’impossessò durante la Resistenza. Altri, ingenti, furono comprati con l’«oro di Mosca»: finanziamenti dall’Unione sovietica e tangenti sugli scambi commerciali con i Paesi dell’est nella lunga stagione della guerra fredda.
Questo business durato decenni ha consentito al Pci di strutturarsi come nessun altro partito in Italia. Fassino, D’Alema e Sposetti, nel 2007, si rifiutarono di conferirlo al Pd. Ma dietro questa ibernazione di un patrimonio immenso stanno anche altre ragioni meno nobili. Dieci anni fa i post-comunisti erano pieni di debiti come oggi, quasi 200 milioni di euro secondo gli ultimi rendiconti Ds, coperti in piccola parte con la vendita dei palazzi storici che ospitavano le federazioni locali. Furono clamorosi i casi di Botteghe Oscure o del palazzo alle Frattocchie, sede della scuola politica.
Di quel passo i Ds si sarebbero mangiati rapidamente anche il resto. La scelta di creare le fondazioni non fu dunque dettata soltanto dalla diffidenza (reciproca) verso la Margherita: il patrimonio fu messo al riparo soprattutto dalla voracità dei compagni indebitati fino al collo e dalle brame dei creditori, in testa le banche pronte ai pignoramenti. Da Efibanca a Unicredit, che pure fu guidata a lungo da un banchiere amico come Alessandro Profumo, vari istituti hanno impugnato alcuni atti di donazione di immobili dai Ds alle fondazioni, le quali formalmente non hanno legami con il partito. Per ora le banche creditrici devono farsi bastare il pignoramento di qualche rimborso elettorale.
Fu Bologna il laboratorio che mise a punto il sistema delle fondazioni per sottrarre gli immobili alle fauci dei tesorieri diessini: la Fondazione Duemila, che ha un bilancio di 20 milioni di euro (immobili per 13 milioni di euro e partecipazioni in società immobiliari per altri 7), fu istituita un anno prima della fusione tra Ds e Margherita, nel giugno 2006. In autunno il Parlamento a maggioranza Ds-Rifondazione consentì ai partiti di costituire «fondazioni politico-culturali» per gestire anche patrimoni immobiliari che godono di un vantaggio fiscale perché in caso di vendite non pagano la tassa di registro. Attenzione: le fondazioni non hanno scopi di lucro, ma le immobiliari da loro controllate sì. Sull’asse Lombardia-Emilia Romagna-Toscana quasi tutti gli enti agiscono in questo modo.
E sono casseforti blindate, a prova di grimaldello politico, perché i responsabili sono nominati a vita. Che paradosso: il partito della collettivizzazione ha privatizzato i propri beni affidandoli a enti amministrati da persone che non rendono conto a chi ha costruito (almeno in parte) quel patrimonio ma semplicemente a chi li ha nominati. A chi appartengono quei beni che hanno fatto la storia della sinistra italiana? Al partito, ai militanti, alla casta dei compagni che non sbagliano? Al momento sono saldamente in mano agli anti-renziani.
Da un lato dunque c’è la proprietà di case e palazzi, dall’altro il partito che ha preso in affitto le sedi dalle fondazioni pagandolo con i denari del finanziamento pubblico. A Bologna la Fondazione Duemila ha come inquilino il Pd in oltre metà degli 87 spazi posseduti, una proporzione che si ripete anche nel resto del Paese. Il Pd paga ai Ds un «affitto politico»: 28 euro il metro quadrato per gli uffici, 24 per le sale riunioni, 20 per i magazzini. In sostanza, una sede di 100 metri quadrati versa sui 3.000 euro di affitto annuo. E ugualmente in molte zone d’Italia il Pd è un inquilino moroso, come testimoniano la crescita dei crediti per insolvenza accantonati nei bilanci delle fondazioni e le numerose minacce di sfratto. I Ds che cacciano il Pd: una metafora della lotta interna al partito tra la vecchia guardia e Renzi. La diffidenza con cui sette anni fa i Ds consideravano la Margherita è la stessa con cui la minoranza Pd guarda al rottamatore di Firenze.
Un 15 per cento degli immobili rossi ospita, sempre a pagamento, associazioni, circoli Arci, coop, sindacati, centri sociali. Un altro 20 è concesso a privati a prezzi di mercato: bar, uffici postali, negozi, palestre, perfino sale giochi. Il resto è da ristrutturare. In un anno la Fondazione Duemila (anche attraverso l’Immobiliare Porta Castello spa controllata al 99,95 per cento) dichiara di incassare circa 2 milioni di euro dai canoni di affitto. Per gli eredi del Pci il mattone resta un ottimo investimento nonostante la crisi. Fra le entrate si trova anche una piccola voce, il 5 per mille: tutte le fondazioni rosse hanno chiesto di incassarlo in quanto «enti di volontariato», un sistema di finanziamento indiretto al partito. Su internet la raccolta del 5 per mille è spesso l’unico contenuto dei siti. Ma i militanti non sono troppo generosi: a Bologna appena 1.709 euro. Come cantava Gianni Morandi, artista cresciuto nelle case del popolo emiliane, si può dare di più.