la Repubblica, 24 novembre 2014
A Verona nasce il cimitero verticale. Così la città di Giulietta punta a diventare una meta per l’estremo viaggio: un terreno del Comune potrebbe ospitare il primo grattacielo d’Europa per le sepolture
Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte / ingenerò la sorte». Chissà se memore di questo celeberrimo incipit leopardiano, il sindaco di Verona Flavio Tosi annuncia contemporaneamente di voler fondare il primo Museo dell’Amore (un progetto di Federico Moccia) e di voler ospitare il primo cimitero verticale d’Europa. Amore e morte al tempo della Lega, insomma.
Il marketing della cosiddetta Casa di Giulietta (che è un falso dei primi del Novecento) e tutta la paccottiglia ad essa collegata (mura su cui graffire messaggi d’amore, buca per le lettere all’eroina shakespeariana, statua da carezzare su un seno...) fanno già di Verona la prima meta italiana per i matrimoni itineranti. Ma non basta: ora l’idea è di renderla anche un ambito traguardo per l’estremo viaggio, un turismo cimiteriale che rappresenta letteralmente l’ultima spiaggia della messa a reddito dell’umana esistenza.
La società Cielo infinito promette al Comune di costruire trentatré piani di morte: per un totale di 2.676 cappelle e 21.412 loculi, cui vanno sommati 1.920, più democratici, loculi comuni e 576 cinerari al piano secondo. All’ultimo piano sorgerebbe la chiesa, con vista su questo mondo e quell’altro. E a tutto ciò vanno sommate le sale commemorative, gli uffici, le caffetterie (per i parenti), i bookshop (contro la noia eterna) e 15.000 metri quadrati di un Museo della Morte che si annuncia vivacissimo. Una volta costruito il grattacielo (termine vagamente insinuante, vista la destinazione), si tratterebbe solo di piazzarne gli appartamenti: e il jingle della pubblicità potrebbe fornirlo l’inarrivabile Urna di Elio e le storie tese: «Voglio una degna sepoltura / quando la morte verrà e mi ghermirà / una tomba linda e duratura /che preserverà dall’umidità».
Ci sarebbero molti altri modi di usare i 72.523 metri quadrati del terreno che fu lasciato al Comune di Verona da Achille Forti (1878-1937), e per il quale il Piano comunale degli interventi prevederebbe infatti una destinazione agricola. E invece no: l’amministrazione Tosi preferisce alienare il terreno, e permettere che sia cementificato in verticale fino alla quota, davvero celeste, di centodieci metri. Un’altezza che farebbe di questo inquietante Faro della Morte, l’edificio più alto della città di Verona, visto che la Torre dei Lamberti si ferma a 84 metri e il campanile del Duomo a 75. Una tensione fallica che ricorda quella che animava il Palais Lumiere che Pierre Cardin avrebbe voluto costruire non molto lontano, in riva alla Laguna di Venezia: come se ci ritenessimo ormai incapaci di «creare per i nostri figli un’armonia degna di quella che abbiamo ricevuto dai nostri padri: questo contegno ormai antico è stato spodestato da un’estetica della dismisura che ha fatto del grattacielo la sua bandiera, da un’etica che ha nel mercato il suo credo unico e inaggirabile» (così Salvatore Settis in un paragrafo dedicato alla “retorica dei grattacieli” nel suo recentissimo Se Venezia muore).
Una bella massima di Michel de Montaigne prescrive di evitare «che la nostra morte dica cose che la nostra vita non abbia detto in precedenza»: e bisogna riconoscere che il progetto accarezzato da Tosi l’ha rispettata. Perché il modo di abitare le nostre periferie, e cioè il nostro triste incasellamento in parallepipedi di cemento sempre più simili a cimiteri per vivi, diventa ora il paradigma su cui modellare il luogo che ospiterà il nostro sonno eterno. Non posso più nemmeno sognare, con Battisti e Mogol, «un cimitero di campagna e io là / all’ombra di un ciliegio in fiore senza età /per riposare un poco due o trecento anni / giusto per capir di più e placar gli affanni». No: anche dopo sarà cemento, solo cemento, sempre cemento.
«Pur nuova legge impone oggi i sepolcri / fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti /contende»: così il Foscolo dei Sepolcri si scagliava contro l’editto di Saint Cloud, in cui Napoleone proibiva di conservare la memoria dei defunti nelle città, nelle chiese, nelle epigrafi delle tombe. Oggi, invece, è la ferrea legge della speculazione edilizia che – dopo aver distrutto il territorio, sformato le città, degradato le vite – ambisce a disumanizzare anche il più umano degli affetti.
Ma non illudiamoci: il cemento non ci sarà lieve.